Andrea Magnolini vive in campagna in provincia di Bologna. Laureato in Scienze dell’educazione, ha lavorato come educatore ambientale nelle scuole e in una fattoria didattica. Dal 2009 è libero professionista, si occupa di progettazione e realizzazione di giardini e spazi di gioco naturali per bambini e strutture in salice vivente. Tiene corsi di autocostruzione e manualità: forni in terra cruda, l’intreccio e la cesteria, le stufe in muratura, “bioedilizia ruspante”. Da molto tempo è appassionato ai materiali semplici, ai mestieri tradizionali, le tecnologie appropriate e ai meccanismi dell’apprendimento. Magnolini è anche autore dei libri
“Forni in terra cruda” e
“Fare cesti” (Terra Nuova Edizioni).
Dalla laurea in scienze dell’educazione sei passato all’autocostruzione e alla messa in pratica di un bagaglio di esperienze e competenze apprese negli anni. Raccontaci la tua scelta.
«Sono molto contento dei lavori che sto facendo adesso, mi sento a mio agio, come se avessi “ritrovato casa”, tanto che credo che continuerei a farli anche se non avessi bisogno di un reddito. Non è sempre stato così; credo di essere stato un ventenne molto disorientato di fronte alle mille scelte possibili. Se riguardo indietro mi rendo conto che alcune cose hanno inciso sulla mia scelta professionale. Ci sono le esperienze dell’infanzia: sono nato in una cascina della bassa bresciana e ci sono stato fino all’età di 3 anni. Da piccolo insieme ai miei amici costruivo i giochi, avevamo a disposizione il bancone da lavoro e gli attrezzi di mio padre. A 9 anni e mezzo ho iniziato a fare il manovale per potermi comprare una bicicletta, la considero un’iniziazione più che onesta alla vita. L’università mi ha dato una grande preparazione umanistica, tanto grande quanto teorica. Nel frattempo facevo volontariato per capire cos’era il lavoro di educatore e più entravo nell’ambiente del sociale più capivo che mi andava stretto: c’erano sempre meno fondi, la richiesta più o meno esplicita dello stato mi sembrava essere quella di gestire e “contenere” casi problematici. Molto mi ha aiutato la pratica. Durante un tirocinio in un asilo nido-scuola materna ho fatto un orto; mi sono fatto parecchie domande su questa attività e ho girato un po’ per trovare delle risposte. Sono andato in Val D’ultimo a conoscere Trude Schwinbaher che aveva aperto una scuola di antichi mestieri e valorizzazione dei materiali e saperi locali. Ho avuto l’immensa fortuna di conoscere Gianfranco Zavalloni che, con altri, ha scritto e praticato i diritti naturali dei bambini” dato il via alle fattorie didattiche e alle aule di ecologia all’aperto insieme a mille altre iniziative. Da lì mi sono ritrovato a bussare alla porta al bio agriturismo Dulcamara in provincia di Bologna. Dopo che mi hanno assunto mi sono reso conto che era una delle fattorie didattiche più grandi e più vecchie d’Italia. Lì ho fatto il cuoco, il cameriere, davo da mangiare agli animali, aiutavo in agricoltura facevo le manutenzioni, ho fatto le mie prime esperienze con la bioedilizia e facevo educazione ambientale con i bambini. E’ stata un’esperienza molto intensa che mi ha avvicinato alla realtà e alla complessità della vita di campagna. Purtroppo le risorse in educazione ambientale calavano e i progetti divenivano sempre più corti, anche nella scuola si andava verso un certo consumismo culturale. Nel frattempo avevo fatto il mio primo forno in terra cruda, e mi ero avvicinato al GRTA, gruppo ricerca tecnologie appropriate o Ecoistituto di Cesena. “Le tecnologie appropriate”, spiegavano “sono risposte semplici ai bisogni fondamentali dell’uomo, sono tecnologie che risolvono problemi senza crearne di più grandi”. Eravamo un gruppetto di giovani e Zavalloni ci ha preso in qualche modo sotto la sua ala, ci ha dato la possibilità di partecipare a tutte le iniziative che organizzavano. Ho visto così persone esperte di fumisteria, terra cruda, calce naturale, orticoltura, intreccio ecc. Ho seguito alcuni mestieri che in qualche modo “mi chiamavano”, che mi uscivano meglio o che comunque mi motivavano a fare meglio. In seguito ho fatto diverse esperienze con diversi maestri, diversi metodi, girando mezza Italia e qualche volta sconfinando; oggi mi viene naturale diffondere una sintesi di quel che ho imparato, condividendo la passione e la bellezza che c’è dietro ogni saper fare».
Oggi con corsi e iniziative trasmetti ciò che hai imparato ma senza smettere di imparare. Quale è il valore aggiunto di ritornare al lavoro manuale e artigianale, di riappropriarsi delle tecniche di lavorazione e costruzione utilizzando materiali poveri e naturali? Si acquista una prospettiva differente?
«Direi che la ricerca ha un ruolo molto importante nel mantenere acceso il fuoco della passione per quel che faccio. Per esempio per le stufe mi piace vedere diversi modi di affrontare lo stesso problema (scaldare con poca legna per molte ore); allora seguo ora un bavarese, ora un altro tedesco, ora un russo. Quando imparo penso che tutti abbiano pienamente ragione. E’ bello vedere come ognuno dica che le stufe dell’altro non possono funzionare o siano strane. Molti sottintendono che le proprie siano le migliori. E’ ancor più bello vedere che tutte le stufe funzionano e che assolvono a bisogni (estetici, termici, di economia di materiali) diversi. Solo dopo posso fare una piccola sintesi scegliendo quel che mi ha convinto di più».
«La società in cui viviamo, o il nostro immaginario, ha confinato la ricerca nei laboratori. In realtà ogni persona che ama il proprio mestiere non smette mai di indagarlo, di porgli delle domande. I ceramisti si continuano a chiedere come mai cuocendo ad una certa temperatura i pezzi sono più solidi o le terre cambiano colore. Mestiere per me “fa rima” con mistero. Un artigiano più è esperto più è incuriosito dalla materia che tratta. Durante la loro ricerca gli artigiani ripetono, variano un po’ e prendono tempo per osservare. Joan Farrè, uno dei cestai più bravi d’Europa, diceva “ripetere per un artigiano è molto importante”. Come tutti i cestai era partito dai “classici” cesti tradizionali della sua zona, poi si era stufato del fatto che gli riuscivano alla perfezione e ha iniziato a variare il colore dei materiali, poi le forme, fino ad arrivare a delle forme artistiche apprezzate a livello internazionale. Ripetere e introdurre piccole varianti. Molto diverso è l’approccio dell’architetto, del designer o della scuola che pensano che appena hai imparato una cosa ne devi affrontarne un’altra completamente diversa. Spesso arrivano ai corsi persone che dicono: “Voglio fare un’opera d’arte con il salice”, quando non sanno neppure distinguere la pianta. “Tutto quello che potrai fare, se non hai mai piegato un rametto in vita tua è una schifezza” diceva Joan. Picasso prima di dipingere come Picasso, dipingeva come Raffaello. Ma in molte facoltà vige l’idea che sei originale se la cosa che fai è completamente diversa da quella che propone il tuo vicino, il tutto scollegato dalla pratica. Anche nella scuola è privilegiato lo stereotipo del bambino cognitivo che legge e ripete bene tutto quello che ha letto. Ci sono tantissimi “alunni” che beneficerebbero di un modello legato all’esperienza diretta! Molti bambini hanno bisogno di muovere il corpo, di fare delle piccole scoperte in autonomia o in gruppo, hanno bisogno di curiosità e di un’immersione sensoriale nell’ambiente per imparare. Spesso sono i bambini più svegli quelli più penalizzati quando sono seduti dietro i banchi di scuola. La bellezza di partire dai materiali più comuni e più sottovalutati (terra, legno, fibre vegetali, pietre ecc.) è che sono sempre disponibili, non si ha l’ansia che chiudano i magazzini e le rivendite. Oggi in qualsiasi parte (o quasi) del mondo mi trovi saprei fare un forno per cucinare o per terracotta, saprei arrangiare una stufa con un po’ di fango, sabbia dei mattoni vecchi o dei coppi vecchi, potrei creare un contenitore con la vegetazione spontanea o un intonaco con materiali locali. Questo mi da un gran senso di ricchezza rispetto a tutto quello che la natura ci mette a disposizione in abbondanza. Ricchezza che è slegata dalla borsa che sale e che scende. Inoltre cercando delle cose per il proprio lavoro, ci si rende conto della bellezza e della varietà della natura. E’ un’esplorazione che procede per differenze sempre più sottili. Prima di intrecciare non vedevo i salici. Ne avevo due piante dietro casa senza saperlo. Oggi li vedo a 100 metri di distanza, so riconoscerne le famiglie, mi appassionano le piccole differenze di colore, foglie ecc. La terra era una massa anonima che sta sotto i piedi. Ora che la cerco per gli intonaci vedo la terra argillosa, quella limosa, quella grigia e quella rossa e, “cosa buffa”, in ogni posto in cui vado è lì ad aspettarmi, sempre differente. Un altro vantaggio dei mestieri che permettono di seguire un ciclo completo è quello di diventare più consapevoli. Se si segue il percorso dei materiali dall’estrazione alla posa, dal taglio delle piante al loro impiego, si può facilmente capire quanto e come spreca l’economia in cui viviamo, quanto danneggia e depreda il pianeta, quanto avvelena le case, gli oggetti che usiamo, quanto vengono sabotati i prodotti con l’obsolescenza programmata per poter tornare a produrre beni e rifiuti. Ci si rende conto in un attimo come la nostra economia si è evoluta rispondendo in maniera complicata e superficiale ai nostri bisogni per inseguire il bisogno di denaro».
Il sapere del fare, oggi nella nostra società, è visto come un sapere di serie B, meno nobile rispetto al sapere intellettuale. Tu come la pensi in proposito?
«La nostra resta comunque la società del fare. Rispetto a molte altre società al mondo e rispetto al nostro passato, siamo molto meno contemplativi. Solo che il nostro fare è diventato distaccato, mentale. Abbiamo ritmi sempre serrati, il lavoro oggi lo fanno le macchine (e in maniera sempre più veloce). Proprio grazie alle macchine siamo sempre intenti a fare qualcosa, facendo qualcos’altro nel frattempo. Siamo strapieni di obbiettivi, progetti e preoccupazioni in una mente multitasking. Fra un falegname moderno con 50 macchine automatiche e un falegname vecchio stile con 15-20 attrezzi c’è una differenza abissale. Non tanto nella bravura tecnica, quanto nella prospettiva. Il primo di solito deve stare attento ai costi, al numero di pezzi da produrre, alle leggi e alla burocrazie. Per me fare un cesto è come mettersi davanti ad uno specchio, se non presto attenzione ad ogni singolo gesto, se sono distratto, preoccupato o non ci metto il cuore, alla fine si vede. Nel lavoro artigianale devi essere lì in quel momento, con tutto te stesso».
«Molti praticanti dello zen erano artigiani. Lo Zen è una disciplina che pratica la concentrazione e pulizia della mente; un dialogo fra maestro e discepolo ne chiarisce il senso “Maestro, qual è la cosa più importante?” il maestro risponde: “Quello che stai facendo in questo momento”. Allo stesso modo nel medioevo si sviluppa un’etica del lavoro artigianale che mette al centro “la cura”. Aveva valore “il lavoro ben fatto” di per sè, al di là della sua collocazione sul mercato, del valore monetario o di scambio. Il mestiere è metodo e calma, forza energia, ma anche senso della forma e della misura, intuito e, soprattutto in Italia è gusto».
«Quel senso della proporzione che confronta sempre il tutto con la parte sentendo l’armonia senza strafare. Chi pratica un mestiere ha tra le mani una materia informe e arriva a definire delle forme, a volte direi quasi perfette, con l’aiuto delle mani, dell’esperienza e pochissimi attrezzi. Ho visto fare nasse partendo da una canna spaccata e del giunco, forme tonde, sferiche praticamente perfette create senza l’uso di un metro, di un compasso, di una misura tutto ad occhio, come si dice».
«Una cosa che abbiamo perso tantissimo, oggi se non usi il CAD e non definisci tutto prima in un progetto minuzioso (che raramente si realizza secondo i piani) si va in panico. Un terzo aspetto è che l’artigiano che lavora “secondo natura” impara i limiti dei materiali e a rispettarli, sa che la sua creatività sta nella combinazione, nel “fare il meglio che si può, con quel che si ha”. Non ci sono “materiali che vengono dalla luna”, non una tavolozza infinita, se ci sono 2 o 3 colori si dipinge con quelli, ma (almeno per me) questo stimola la creatività. In definitiva si acquista la capacità di sentirsi liberi anche dentro dei limiti. Tutto il processo artigianale si svolge in un’economia di gesti. Anche per spaccare un mattone, un muratore lo fa “delicatamente” solo con la forza che serve, perché nell’arco della vita la forza è limitata e va usata con criterio. Se guardate un contadino vangare o spalare, userà solo i muscoli necessari si aiuterà con leve e un perfetto bilanciamento. Se mettiamo un culturista a fare lo stesso lavoro, anche se dispone di più forza, finirà l’aiuola con il mal di schiena. E questo è un altro dono del lavoro manuale: imparare a conoscere oltre ai limiti dei materiali anche i propri e quelli del proprio corpo. C’è un altro falso mito da sfatare ovvero che chi lavora con le mani ha una mente ristretta rispetto a chi si dà al mondo del sapere accademico e parla per esperienza indiretta di tutto un po’. La propria passione e la propria abilità possono essere un veicolo per conoscere il mondo. Prima di tutto il lavoro artigianale riconnette con le tradizioni poi con la storia, che non è fatta solo date e battaglie ma è soprattutto capire come viveva la gente, come se la cavava ecc. E’ la differenza che intercorre fra un critico d’arte che commenta un mobile facendo richiami culturali e un falegname che capisce che tipo di legno ha usato, la stagionatura, quali sono state le difficoltà nell’assemblaggio ecc. Vedo ogni anno cestai “curiosi”, con la licenza media, girare l’Europa. Attraverso la loro passione, riescono a capirsi ed entrare in confidenza con persone di altri paesi, altri continenti. Riescono a dialogare con persone che fanno lavori completamente diversi: architetti, ingegneri, persone nel campo della moda. Li ho visti parlare in pubblico con una platea ammutolita, perché le parole, per un contadino, per un artigiano, sono più dense, piene di realtà vissuta, come un gesto, costano fatica; allora bisogna usare solo quelle che servono. Oggi grazie alle macchine che fanno il lavoro al posto nostro, stiamo attraversando un neo-analfabetismo manuale. Spesso ai corsi di autocostruzione ci sono persone convinte si saper fare le cose perché le hanno viste su you tube. La pratica li disillude quasi subito. L’esperienza viene lentamente, dopo aver provato con il corpo con i sensi e con la curiosità, non in 12 minuti di video. E’ la differenza fra nozione e conoscenza. Le nozioni scollegate dall’esperienza dirette, per me sono “sapere di seconda mano”, conoscenza per sentito dire. Di nozioni ne abbiamo fatto una scorpacciata, ne ingurgitiamo ogni giorno e ora abbiamo l’indigestione. Nel frattempo abbiamo perso le capacità elementari che ci permetterebbero di soddisfare i nostri bisogni elementari se i “supermercati” chiudessero: fare un orto, segare un tronco, tirare su un muro ecc. Tornare all’esperienza e alla natura può costare un po’ di fatica ma per molte persone può essere una vera e propria liberazione. Buon cammino».