Fresco di stampa il libro
Grani antichi. La rivoluzione dal campo alla tavola (Terra Nuova Edizioni), di Gabriele Bindi. È un viaggio in lungo e largo per l’Italia alla scoperta di nuove filiere del cibo. Un testo ricco di esperienze e documentazioni fotografiche, e di informazioni che riguardano gli aspetti della salute, dell’economia, e della coltivazione di queste antiche varietà di grano, che per le loro caratteristiche e i loro valori intrinseci raccolgono oggi un sempre maggiore successo di mercato.
Da diversi anni lavori nel mondo dell’ecologia e delle buone pratiche. Perché hai scelto di buttarti a capofitto proprio nel tema del grano?
Le cose di cui ci occupiamo nel nostro settore sono tutte importanti, ma a volte si fa fatica a trovare un riscontro immediato nella nostra vita privata. Ho voluto impegnarmi su qualcosa che considero più concreto, interrogarmi su ciò che coltiviamo e mangiamo ogni giorno. Il grano non è un alimento qualunque: da circa 7000 anni è alla base dell’alimentazione della maggior parte della popolazione mondiale. Poi ci sono gli aspetti legati all’ambiente e alla salute che mi hanno guidato in tutto il percorso. È un qualcosa, anche qui, che sento legato molto alla mia vita personale. Sarà capitato anche a voi di sentirvi la pancia gonfia dopo una pizza o un piatto di maccheroni. Volevo capire meglio il rapporto tra grani moderni e malattie.
Quali sono i problemi di salute generati dai grani moderni?
Ho scoperto che c’è una connessione molto forte tra la qualità del glutine e molte delle malattie che affliggono oggi la nostra società. E avevo l’urgenza di raccontarlo. Gli effetti sulla salute sono di vario tipo e di varia entità. Non vorrei essere troppo allarmistico: la questione è piuttosto complessa e nel libro ho cercato di fornire un quadro il più possibile esaustivo, rifacendomi a diversi studi scientifici. In linea generale si può dire che i frumenti moderni, rispetto a quelli tradizionali, hanno un maggiore potenziale tossico, che rendono i farinacei difficilmente digeribili e responsabili di diversi processi infiammatori.
C’ è un rapporto tra il pane che mangiamo oggi e la celiachia?
Le ibridazioni del grano moderno hanno contribuito sicuramente ad incrementare la celiachia, che è un fenomeno in costante aumento. Non facciamoci illusioni: al momento l’unico rimedio è l’eliminazione totale del glutine dalla dieta. I grani antichi non possono certo fare miracoli, ma allo stesso tempo è giusto fare prevenzione. Per me era importante far capire una cosa: il grano che oggi va per la maggiore non crea problemi soltanto ai celiaci, ma anche ai soggetti sani, senza predisposizioni genetiche particolari. Il rischio è quello di avvelenarci lentamente, per poi accorgercene troppo tardi.
La voce si è già diffusa e i grani antichi sono sempre più richiesti. Si può dire che è un fenomeno di moda?
Oggi tutti vogliono i grani antichi, ma la gente non sa ancora bene di cosa stiamo parlando. Scrivendo questo libro ho voluto chiarire un po’ di equivoci e spiegare bene tutte le problematiche e le implicazioni dal punto di vista agricolo, economico, nutrizionale. Non credo che si tratti di una moda passeggera, ma più di un bisogno di senso che tocca diversi aspetti. Detto questo, la presenza di una domanda di mercato così forte crea sicuramente il rischio di speculazioni. Per questo motivo ho preferito dare spazio a nuove filiere agricole costruite dal basso: ho trovato diverse realtà autentiche in ogni regione italiana. Questo libro mi ha permesso di viaggiare, incontrare medici, nutrizionisti, agronomi, genetisti, ma soprattutto tante persone straordinarie che coltivano e trasformano con passione questi grani. Non vorrei essere troppo enfatico, ma credo che sia una vera rivoluzione nel modo di produrre e pensare al cibo.
Come è pensabile oggi tornare a coltivare un grano di tremila anni fa?
I grani di tremila anni fa sono morti e sepolti. Non si tratta di restaurare un passato romantico e nemmeno di conservare chissà quale antico segreto. Il frumento è un essere vivente, che come tale progredisce e si evolve nel tempo. Il grano dell’antichità non è più lo stesso, è stato tramandato, seminato per secoli e si è adattato alle condizioni climatiche. Non credo che le varietà antiche siano dei semi da collezione, da conservare in qualche museo. Per questo esistono le banche del germoplasma, che svolgono una funzione importante. I semi buoni devono tornare nella terra, svilupparsi, germogliare, ed evolversi nel tempo.
Sbaglio, o ci stai dicendo che non sono tanto antichi questi grani? Stiamo forse alimentando una sorta di mito?
Chiariamoci bene: l’espressione grani antichi è poco rigorosa dal punto di vista terminologico, ma è ormai di uso comune, soprattutto in ambito commerciale. Non mi interessano molto le costruzioni mitologiche che si sono create attorno ai faraoni o a quello che mangiava Oetzi. Nel mio libro mi riferisco a quelle varietà o popolazioni antecedenti alla rivoluzione verde e che non hanno subito mutazioni genetiche mirate ad aumentare la resa e la forza del glutine, o modificare la composizione proteica della granella. Insieme al monococco, che risale anche a dieci mila anni fa, ci sono grani degli anni ’50 che appartengono a questa categoria, e che evidentemente non sono antichi nel vero senso del termine. Ma sono pur sempre estranei a quella violenta mutazione genetica che hanno subito i grani dagli anni ’60 in poi.
Oggi si trovano in vendita pani, pizze, pasta di grani antichi. È tutto oro quello che luccica?
Nei negozi del biologico sono già diffusi da tempo diversi tipi di pasta prodotta con semola da grani antichi, prodotti da storiche aziende del settore. Ormai anche le catene della grande distribuzione hanno lanciato delle linee di prodotti, anche se purtroppo molte delle farine sono ricavate da grani provenienti ancora dall’estero. Vorrei ricordare che anche il farro è un frumento di antica costituzione, ma in pochi sanno che c’è una grossa differenza tra le diverse varietà di farro dal punto di vista agronomico e nutrizionale. Ci sono poi delle varietà antiche di frumento, come la Saragolla, il cui nome è stato utilizzato impropriamente per brevettare una varietà ad alta resa. Ecco, ho voluto fare chiarezza su tutti questi aspetti, per permettere al consumatore di poter valutare e scegliere al meglio.
Passiamo ora alla parte agricola. Come si può pensare di introdurre oggi, nell’era dell’efficienza e del mercato globale, dei grani a bassa resa?
Vorrei qui smontare il mito dell’efficienza delle varietà moderne. I grani di oggi, a piccola taglia e con un glutine più forte, producono di più ma non sono per niente efficienti. Per crescere hanno bisogno di forti concimazioni, diserbanti e di una maggiore irrigazione. Sono come dei cavalli da corsa, allenati per correre forte. A parità di nutrimento sono però più scarsi delle vecchie varietà della tradizione contadina. I grani moderni richiedono più fertilizzanti, erbicidi, lavorazioni: tutti fattori che incidono anche sui costi finali. I grani di un tempo crescono da soli, anche su terreni difficili. Per questo motivo i grani antichi sono i più adatti per l’agricoltura biologica, che fa le rotazioni colturali.
Non pensi che dovremmo produrre più grano per sfamare un mondo con sempre più persone?
Dobbiamo smetterla di credere alla favola della crescita! La produzione sul pianeta di frumento non è mai stata così alta, quest’anno abbiamo raggiunto i 740 milioni di tonnellate, che sarebbero ampiamente sufficienti per sfamare l’intera umanità. Eppure sul pianeta circa 800 milioni di persone soffrono la fame. E ci sono un altro miliardo e 200 milioni di persone malnutrite. Viviamo in un sistema economico malato: almeno un terzo del cibo prodotto su scala globale finisce nella spazzatura. Aumentare la produzione significa spremere a fondo le risorse naturali, pigiare sull’acceleratore per incrementare sì la produzione, ma anche le dosi di fertilizzanti, pesticidi, e il consumo di acqua. Le monocolture non possono certo sfamare il pianeta, anzi lo impoveriscono. Non sono le multinazionali che sfamano il mondo: l’80% della produzione mondiale di cibo è data dall’agricoltura familiare, su piccola scala.
Varietà più produttive potrebbero però aiutare agricoltori del Sud del Mondo?
Ogni regione ha il suo clima, il suo terreno e le sue peculiarità: la biodiversità è fondamentale per la nostra sopravvivenza. Le popolazioni rurali invece vanno rese autosufficienti e non dipendenti dalle multinazionali per l’acquisto di sementi e fertilizzanti. Nei paesi in via di sviluppo, gli agricoltori spesso non hanno accesso all’acqua o semplicemente all’istruzione, figuriamoci se possono indebitarsi per acquistare pesticidi. In India migliaia di agricoltori si sono suicidati, perché strozzati dal ricatto delle multinazionali. Nessun contadino rifiuterebbe a priori i vantaggi di una migliore resa, ma sa anche ragionare sul lungo periodo e sui costi complessivi. Infine una domanda: è ancora possibile pensare che il problema sia quello della scarsa produzione di cibo, e non della distribuzione?
Credi che i grani antichi possano essere un antidoto all’invasione degli Ogm?
Nessuno pensa ai grani antichi come a una panacea. E nessuno vuole tornare a una presunta e ipotetica età dell’oro, in cui ogni comunità è pienamente autosufficiente. Anche perché i cambiamenti climatici in atto non lo consentono. Ma è davvero possibile immaginare una colonia immensa di piantagioni intensive Ogm resistenti agli erbicidi, insomma un enorme ipermercato globale che possa rifornire a catena tutto l’universo? Ammesso e non concesso che lo sia, esiste una folta letteratura che dimostra come la biodiversità sia fondamentale per la sopravvivenza sul pianeta. La presunta capacità delle colture Ogm di immunizzarsi dall’attacco di parassiti, dal proliferare delle piante infestanti o da malattie, è solo temporanea. Molto meglio affidarsi alla selezione partecipata ed evolutiva dei cereali: è il progetto che Salvatore Ceccarelli sta portando avanti con successo in Italia e nel mondo.
E in Italia quale potrebbe essere il ruolo di questi vecchi frumenti?
I presidi di sana agricoltura sono fondamentali in paesi come l’Italia, nelle nostre pianure, sulle aree più sperdute delle Alpi o degli Appennini. È straordinario il lavoro di recupero delle antiche varietà operato da tanti piccoli coltivatori nelle zone più impervie, ma anche nelle regioni dove il consumo di suolo divora ogni anno grosse fette di territorio. I grani antichi oggi sono un’ottima opportunità sotto molti profili, anche sul piano della remunerazione. L’accorciamento delle filiere, i mercati di prossimità, i gruppi d’acquisto, in questo processo, sono fondamentali. Oggi servono agricoltori che coltivano, che ripopolino le campagne, che riescono a darci prodotti sani. Anche se il mondo sembra andare in rovina e il nostro paese è allo sbando, è cominciata una nuova alleanza tra agricoltori e cittadini. Questo è un atto epocale, una rivoluzione silenziosa, che andava raccontata.
Qual è il quadro dei progetti di recupero delle antiche varietà in Italia?
È un mondo davvero ampio, più grande di quanto si possa immaginare, fatto di tante piccole realtà, che magari sfuggono alle catalogazioni, ma sono di grande importanza simbolica e culturale. All’inizio sono rimasto a contatto con le realtà storiche, con i progetti sperimentali, seguendo i lavori della Rete Semi Rurali. In particolare mi sono stati utile gli incontri con il professor Stefano Benedettelli, dell’Università di Firenze, e con Salvatore Ceccarelli, il celebre genetista che è un po’ il pioniere di tutta questa nuova passione per le antiche varietà. Poi mi sono mosso in autonomia e da nord a sud ho incontrato realtà di vario genere: associazioni, aziende, consorzi di filiera, centri di ricerca. Ma ciò che a me interessava di più sono state le esperienze costruite dal basso, gruppi di cittadini che vogliono mangiare del buon pane a chilometri zero, giovani che cercano un nuovo reddito nell’agricoltura di qualità, o nella trasformazione dei prodotti.
Ci sono regioni più mature da questo punto di vista?
Ci sono regioni a forte vocazione cerealicola come la Sicilia che fanno grandi numeri. Ma ci sono anche altre regioni come la Toscana, le Marche, la Campania, l’Emilia Romagna, il Veneto, o il la Lombardia dove si può parlare di vere avanguardie agricole e culturali. A dire il vero ho trovato vecchie spighe di grano in ogni regione d’Italia, anche in quelle che secondo le rilevazioni Istat non hanno colture di frumento. I contadini custodi sono dappertutto: il grano antico non è l’unica coltura emergente, ma è il vessillo di questa piccola grande rivoluzione.
Si potrebbe rafforzare il made in Italy?
Nella scorsa estate i coltivatori sono scesi nelle piazze di tutta Italia per lamentarsi dei prezzi del grano e bloccare le navi cariche di grano straniero. Con un prezzo di 18-20 euro al quintale, non riescono nemmeno a ripagarsi le spese. C’è una grossa responsabilità delle aziende di trasformazione, ma anche degli stessi consumatori, che ignorano la provenienza delle materie prime di spaghetti, pizza, cornetti e altre prelibatezze nostrane. In Italia le importazioni di grano tenero ammontano al 75% del totale. Quelle di grano duro, per la produzione di pasta made in Italy, sono tra il 50% e il 60%. A rischio non ci sono solo la produzione di grano e il futuro di oltre trecentomila aziende agricole che lo coltivano, ma anche un territorio di 2 milioni circa di ettari a rischio desertificazione. Noi dobbiamo tornare a coltivare il nostro grano, a fare qualità, a rendere davvero speciale e ricco di valori, il nostro made in Italy. Ma prima di tutto dobbiamo accorciare la filiera. Ognuno di noi deve assicurarsi che il pane provenga al 100% dal proprio territorio, questo è un modo per salvare il pianeta e la nostra economia, prima ancora del made in Italy.
A proposito, negli ultimi tempi in molti hanno riscoperto il piacere di fare il pane. C’è qualche indicazione particolare nell’uso di queste farine?
Io ho imparato a fare il pane proprio con le farine di grano antico: ho trovato un metodo semplice, straordinariamente veloce, che dà dei risultati eccellenti. Uso farine a chilometri zero, un miscuglio di varietà antiche che ho visto crescere nei campi vicino a casa e che regalano profumi e sapori straordinari. So che vanno trattate con cura. Chi è abituato a usare farine di forza deve cambiare impostazione, abbandonare le vecchie conoscenze, ma è un lavoro affascinante. Chi prova questi grani è difficile che torni indietro.
E chi non ha la possibilità di farsi il pane?
Nel libro ho parlato anche di alcune esperienze di giovani panettieri che su queste farine ci hanno costruito una professione di successo. Ma ci sono anche cuochi, produttori di pasta, giovani mugnai. La dimostrazione che per fare vera innovazione bisogna saper guardare anche al passato. Ma prima di tutto bisogna seminare. Seminare i semi giusti.