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The Harvest: la denuncia sulle condizioni dei braccianti in Italia

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Il film indipendente The Harvest di Andrea Paco Mariani punta i riflettori sulla sfaccettata realtà dei braccianti sikh impiegati nell’Agro Pontino, mostrando uno spaccato della nostra attualità attraverso il linguaggio immaginifico del musical e della docufiction.
The Harvest (Il raccolto) è il nuovo film di Andrea Paco Mariani che racconta la storia dei braccianti impiegati nelle coltivazioni intensive della provincia di Latina e del complesso sistema di sfruttamento che gli ruota intorno. Un docu-musical interamente autoprodotto che sta registrando grande interesse di pubblico nelle sale indipendenti italiane e non solo, registrando un continuo sold out. Protagonista la comunità sikh, con le circa 30.000 persone prevenienti dal Punjab che compongono quello che Marco Omizzolo, del film uno dei principali interlocutori, definisce “un vero e proprio esercito iperflessibile alla mercé del caporale e del padrone”.  


Il calvario dei braccianti inizia in India, dove apposite agenzie vendono pacchetti che dovrebbero comprendere il viaggio, la sistemazione lavorativa e quella abitativa una volta giunti a destinazione, per un costo che va dagli 8 ai 15.000 euro. Per pagare queste cifre i contadini indiani e le loro famiglie sono spesso costretti a vendere tutti i loro averi, come le terre ormai sterili in uno dei territori, quello da cui provengono, che è tra i più sfruttati dalle monocolture. Il sogno di una vita migliore per sé e per i propri cari si infrange presto però, appena giunti nel nostro Paese, dove li aspetta una realtà ostile, a cui il debito contratto rende vincolati. Delle promesse millantate dall’agenzia non rimane nulla, solo l’evidenza che non c’è altra scelta che lavorare nelle campagne per cifre che vanno dai 3 ai 4 euro l’ora (a fronte dei 9 previsti dal contratto provinciale di lavoro); per 10/14 ore al giorno, sette giorni su sette (il contratto prevede 6 ore e trenta di lavoro per 6 giorni alla settimana).
“Parliamo di una nuova forma di grave sfruttamento lavorativo o di neo schiavismo avallato dalla legge italiana, che, nelle sue pieghe, purtroppo lo permette. Il problema riguarda l’intero funzionamento del sistema imprenditoriale agricolo del Paese e per questo lo stesso fenomeno avviene al sud come al nord e, nonostante gli interventi, gli arresti e le denunce, non si riesce a risolverlo” spiega Omizzolo. Lui la situazione la conosce bene, non solo perché da anni se ne occupa come responsabile scientifico della cooperativa In Migrazione, presidente del centro studi Tempi Moderni, giornalista, sociologo e autore di numerosi testi sull’argomento, ma anche perché per un periodo si è finto bracciante e ha lavorato sotto caporale nella campagna pontina. “La sistematicità di questa situazione è dovuta alle norme vigenti che regolano il mercato del lavoro e l’immigrazione, assolutamente funzionali ad un tipo di agricoltura fondato sul profitto. Oltre all’imprenditore sfruttatore c’è un sistema diffuso di criminalità organizzata, che ha fatto dell’ortofrutta e della sua distribuzione un business molto lucroso”.
Secondo i dati contenuti nel rapporto Eurispes sui Crimini Agroalimentari in Italia redatto nel 2017, le agromafie sviluppano un giro d’affari di 21,8 miliardi di euro ogni anno attraverso la produzione agricola e alimentare (1).
Il business interessa tutti gli aspetti della filiera del cibo convenzionale, dalla produzione alla distribuzione, fino alla fase di vendita dei prodotti. Nella campagna, le organizzazioni mafiose gestiscono il reclutamento tramite tratta dei braccianti e i meccanismi che ne permettono l’impiego a basso costo, come il caporalato.
The Harvest mette in evidenza uno degli aspetti più insidiosi di questo impianto, che è quello dell’utilizzo di sostanze dopanti da parte dei braccianti per poter sostenere i ritmi lavorativi.
Il fenomeno era stato denunciato dalla cooperativa In Migrazione nel 2014, con il report dal titolo doparsi per lavorare come schiavi (2). Per Sopportare i ritmi di lavoro, la violenza fisica o verbale del caporale, la fatica nel caldo delle serre, i braccianti sono spesso indotti ad assumere metanfetamine, oppio, e antispastici. La depressione che ne consegue, unita alla costante paura di cadere nell’irregolarità e alla vergogna dovuta all’uso di droghe, tra l’altro vietate dai precetti sikh, ha portato alcuni lavoratori a compiere il gesto estremo del suicidio, attraverso l’evidente simbolica denuncia dell’impiccagione nelle serre.
Ma è in questo scenario che la scelta dell’assetto cinematografico risulta più che mai fortunata: il film affronta infatti le tematiche attraverso la lente di una riuscita docufition, intervallata da momenti di grande intensità sostenuti dal blues incalzante dei Slick Steve & The Gangsters. La voce graffiante di Stephen Hogan, che al caporale dà anche il voto, ci trasporta nel vortice di emozioni potenti scatenate dalla volontà di riscatto e gli dà espressione.
A concludere il quadro i Bhangra Vibes, danzatori della tradizionale musica del Punjab vestiti negli abiti tipici, che hanno il potere di riportare il racconto ad un piano dell’immaginario in cui è possibile pensare un’altra realtà. Una realtà vista non più solo dai nostri occhi ormai indifferenti, ma attraverso lo sguardo attento e fuori dagli schemi di chi la vive ogni giorno sulla pelle.
“Io e il mio gruppo di lavoro ( Smk Video Factory N.d.r.) proveniamo dal mediattivismo e abbiamo prodotto numerosi documentari in forma classica” Spiega Paco Mariani “ma questa volta abbiamo voluto sperimentare un linguaggio nuovo, che potesse restituire il racconto in maniera più efficace e rendesse possibile quello che il cinema dovrebbe sempre suscitare: l’immedesimazione degli spettatori con le storie vissute dai protagonisti”.
Come in uno specchio ribaltato, entriamo in punta di piedi nella vita di Gurwinder Singh, che con poche parole ci proietta nel tempo sospeso lontano da una famiglia a cui è difficile dare spiegazioni, il cui contatto avviene solo grazie al telefono. O di Hardeep Kaur, giovane figlia di migranti indiani cresciuta in Italia, mediatrice culturale per la comunità indiana dell’Agro Pontino che insegna la lingua italiana ai migranti. “Lo faccio per mio padre” spiega in una scena del film “che quando è arrivato in Italia ha dovuto dormire per molto tempo su una panchina. Lo faccio per tutti, perché è giusto”.
Non manca infatti nel lungometraggio la capacità di rivendicazione di un popolo, quello sikh, abituato a lottare per le cause più nobili, come nel processo di indipendenza dell’India dagli inglesi, in cui ebbero un ruolo determinante.
Le telecamere riprendono lo sciopero del 18 aprile 2016, quando nella provincia di Latina 4000 braccianti sono scesi per la prima volta in piazza, portando sotto gli occhi di tutti la situazione delle campagne. Alcuni hanno pagato un prezzo molto caro per questo: hanno perso il lavoro o sono stati aggrediti fisicamente, ma lo sciopero è stato un importante momento di rottura che ha dato inizio a una serie di denunce delle irregolarità.
In quegli stessi giorni Marco Omizzolo e Gurmuk Singh, guida della comunità sikh, hanno occupato pacificamente le terre di alcune aziende agricole. Anche se il rischio è stato grande, (lo stesso Omizzolo è stato ultimamente vittima di intimidazioni attraverso atti vandalici sulla sua macchina) l’azione ha indotto alcuni datori di lavoro a pagare gli arretrati. Un gesto, l’occupazione dei terreni, fortemente simbolico nel nostro immaginario di ex contadini, che ci ricorda le battaglie fatte in passato per la terra e che oggi possono ripartire solo da quei braccianti che ancora chiamiamo stranieri.
NOTE:
(1) Eurispes, Agromafie. Rapporto sui Crimini Agroalimentari in Italia, 2017
(2) In Migrazione, Doparsi per lavorare come schiavi. Un esercito di braccianti indiani sikh sfruttati e costretti a doparsi per sopportare la fatica dei campi e le violenze dei “padroni”, a pochi chilometri dalla Capitale, 2014

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