Vestirsi senza petrolio
Sarebbe bello, almeno nel periodo estivo, poter indossare vestiti più leggeri. Nella bella stagione il maglione, la giacca, i guanti e il cappello riposano ben ripiegati in fondo all’armadio. Ma i vestiti «pesanti» ci inseguono anche in spiaggia e nei giorni più assolati.
Uno studio recente, pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology, ha dimostrato che, durante il lavaggio in lavatrice, i nostri morbidi pile rilasciano residui di fibre sintetiche colorate. Queste, attraverso gli scarichi, oltrepassano i depuratori, finiscono nei canali e alla fine ce li ritroviamo in mare o serviti in tavola insieme a un piatto di cozze.
L’ecologo Mark Browne dell’University College di Dublino ha effettuato campionamenti nelle acque marine e sulle rive di mezzo mondo, ritrovando un po’ ovunque tracce consistenti di poliestere e fibre acriliche.
Purtroppo anche la collezione estiva non dà adito a grandi speranze ecologiche. Il petrolio e le fibre sintetiche ci perseguitano, insinuandosi nelle trame più sottili dei nostri vestiti. Ce li portiamo addosso, fin dentro le mutande! Pensiamo di essere al sicuro perché abbiamo acquistato un paio di boxer che, come recita l’etichetta, sono al 100% di cotone, ma possono essere sempre presenti fibre a base poliuretanica, come elastane e lycra. Infatti le norme sull’etichettatura permettono una tolleranza dal 2 al 5% di fibre estranee sul peso totale del prodotto tessile; difficilmente i produttori sono disposti a farne a meno, per motivi di vestibilità e design.
Del resto viviamo in un’era in cui anche le mutande si professano hi-tech. Sul mercato si trovano degli slip dotati di inserti in nanoparticelle d’argento con caratteristiche antibatteriche e termoregolatrici, ma come più volte abbiamo scritto, l’impiego di nanotecnologie lascia ancora molti punti interrogativi: per quanto riguarda la cessione e l’accumulo negli organi di questi aggregati ultrafini, sappiamo ancora troppo poco.
Un discorso analogo potrebbe essere fatto per i prodotti in microfibra. Questo materiale, che trova sempre maggiore utilizzo negli indumenti più comuni, asciuga in fretta e promette addirittura di non far sudare. Se se ne può giustificare l’uso per l’abbigliamento tecnico e sportivo, la microfibra non offre particolari vantaggi per chi vuole stare al fresco in estate: meglio sicuramente un tessuto tradizionale come il lino, che ha un impatto ambientale ridotto, è robusto e assorbe bene l’umidità in accesso. Ma non è solo una questione di fibra. Il prodotto convenzionale incontra il problema del finissaggio delle colorazioni, che spesso vengono eseguite in paesi lontani dove metalli pesanti, ftalati, coloranti e solventi nocivi sono all’ordine del giorno. E noi nel frattempo rischiamo la pelle.
Antipatici a pelle
Gli abiti griffati e più cari a volte danno solo la garanzia di maggiore inquinamento e rischio per la salute. E purtroppo gli indumenti per bambini non vengono affatto risparmiati. Innocenti vestitini e magliettine colorate di rosa e azzurro nascondono pericoli subdoli e inquietanti. Nei test di laboratorio sulle t-shirt per bambini, riportati nel maggio del 2010 dalla rivista tedesca Oekotest, i principali marchi, che spopolano nell’abbigliamento per i più piccoli, se la cavano assai male. Una maglietta di Benetton veniva addirittura penalizzata nel giudizio a causa della presenza di diottilftalato (DEHP), una sostanza classificata come pericolosa per l’apparato riproduttivo.
Il problema riguarda non solo i prodotti dozzinali reperibili a pochi euro sui banchi del mercato, ma coinvolge, a nostra insaputa, anche gli scaffali dei più noti negozi. La delocalizzazione produttiva in paesi lontani, se è vero che fa risparmiare denaro, può avere costi molto più elevati sulla salute e l’ambiente. La persistenza di alcune sostanze chimiche sui prodotti finiti di abbigliamento può causare diverse patologie, come ad esempio le dermatiti allergiche da contatto, che in Italia interessano una fetta sempre più ampia di popolazione. Sotto accusa ci sono prodotti per le tinture e per il finissaggio, i metalli, la gomma e le colle. Tra questi coloranti, quelli che più facilmente determinano sensibilizzazioni appartengono al gruppo dei dispersi, che si legano in modo stabile alle fibre naturali, ma in modo assai meno stabile alle fibre sintetiche.
Bisogna aggiungere che in estate, con la sudorazione copiosa e il contatto diretto con la pelle, il rischio di esposizione aumenta in modo esponenziale. Nei capi di abbigliamento convenzionali la contaminazione è così elevata che diversi esperti consigliano di lavarli più volte prima di indossarli.
Il dossier Panni Sporchi, elaborato da Greenpeace, ha dimostrato che alcuni componenti pericolosi, usati nella produzione di abiti di grandi marche dell’abbigliamento, vengono rilasciati nell’ambiente subito dopo il primo lavaggio in lavatrice. Quella che sembra essere una buona notizia, ci parla in realtà di un fatto drammatico: tutte queste sostanze inquinanti finiscono nei corsi d’acqua e, prima o poi, in mare. I capi prodotti nei paesi asiatici per varie firme di moda come Kappa, Ralph Lauren e Calvin Klein sono zeppi di sostanze chimiche pericolose, che finiamo per portarci addosso o per ritrovare nella nostra catena alimentare, con effetti devastanti.
Anche se l’uso di nonilfenoli etossilati nell’industria tessile è bandito nell’Unione europea, in Cina la produzione continua a ritmi forsennati, con poco riguardo per l’ambiente. L’industria tessile nella Repubblica Popolare scarica 2,5 miliardi di tonnellate di acque reflue all’anno nei fiumi, nei laghi e in mare. Secondo la mappa dell’inquinamento stilata dalle associazioni di consumatori internazionali, sono coinvolte oltre 6000 fabbriche tessili e molte di queste producono capi per firme internazionali ed estere. Ciò che ci sforziamo di non far entrare dalla porta passa direttamente dalla finestra.
Dove va il tessile eco-bio?
Bio, eco, naturale: sono tutte parole che possono anche confondere. I negozi specializzati e i produttori danno sicuramente più garanzie rispetto alle promesse di certe grandi aziende che cercano di cavalcare la moda del momento. Fare una maglietta con cotone equosolidale o biologico e poi tingerla con pigmenti tossici evidentemente ha ben poco senso.
Se fino a qualche anno fa sembrava che dovessimo accontentarci della buona coltivazione del cotone, oggi anche il consumatore è diventato molto più esigente. La materia prima rimane comunque centrale, perché si avverte la necessità di alleggerire il peso del cotone, la fibra che ha conquistato il pianeta a suon di pesticidi e si è imposta grazie a un nuovo sfruttamento coloniale di manodopera nel Sud del Mondo.
Il cotone biologico ed equo è cresciuto, ma non rappresenta più l’unica risposta su cui si concentrano gli sforzi dei produttori attenti all’ambiente. Si sta infatti diffondendo la ricerca delle fibre alternative al cotone: se canapa e lino confermano ormai il loro ruolo tradizionale e vengono apprezzati per le loro caratteristiche anche nel mondo della moda, si affacciano all’orizzonte nuovi materiali come il bamboo o addirittura l’ortica, che possono vantare un bilancio ambientale molto più favorevole rispetto al cotone.
L’ortica, nella fase di coltivazione, non richiede diserbanti o anticrittogamici, consuma pochissima acqua e ha il vantaggio di farsi coltivare per lunghi periodi, oltre vent’anni, sullo stesso terreno. Ma il desiderio di contraddistinguersi ha spinto la ricerca anche oltre le fibre vegetali, fino ad utilizzare addirittura una fibra ricavata dalla caseina, denominata anche fibra di latte. Come dicevamo, la materia prima non è l’unica prospettiva. Il finissaggio e la colorazione diventano sempre più importanti. Il disciplinare del GOTS (Global Organic Textile Standard), la cui certificazione in Italia è affidata a Icea e Ccpb, garantisce l’applicazione di regole precise per l’intero processo produttivo, dal campo al prodotto finito, senza dimenticare di controllare i coloranti e gli ausiliari utilizzati nel finissaggio.
Esistono però anche altre certificazioni come Oeko-Tex Standard 100, che attesta la conformità del capo a parametri più restrittivi per alcune sostanze nocive, o il marchio Ecolabel, che impone il rispetto di determinati requisiti ambientali di base.
Ovviamente la certificazione per le aziende rappresenta un investimento economico e corrisponde anche a una precisa scelta di marketing. Alcuni produttori preferiscono percorrere altre strade in un nuovo rapporto di fiducia con i clienti finali, oppure fornendo valori aggiuntivi.
C’è chi tinge i tessuti con la frutta, e chi propone trattamenti di superficie con l’essenza di Aloe vera o altre sostanze che ci comunicano benessere. I vestiti di luce Beijaflor ad esempio, oltre a utilizzare tessuti naturali e tinture vegetali, aggiungono elementi di aromaterapia, floriterapia e cromoterapia, con l’introduzione di oli essenziali e rimedi floreali. Tutti i capi vengono proposti in sette colori, ognuno dei quali viene rinforzato con un apposito nettare che corrisponde a tale vibrazione. Gli abiti, quando non vengono utilizzati, possono essere riposti in uno scrigno per «ricaricarsi» con qualche goccia applicata su un apposito supporto in lana cotta.
Ciò non di meno, molti piccoli produttori hanno scelto di tornare alla sobrietà, con linee gradevoli e pulite, pochi fronzoli e accessori, e qualche compromesso come la mescolanza di fibre provenienti da agricoltura biologica con fibre convenzionali. Nonostante la crescita del settore, è innegabile che la crisi abbia fornito un tetto di spesa anche per i produttori. Ma i compromessi hanno pur sempre un limite, che per i produttori più attenti rimane invalicabile: la dignità. Sarebbe facile abbattere i costi ricorrendo allo sfruttamento di manodopera in paesi lontani, ma questa è una prassi che per chi compra bio o frequenta i gruppi d’acquisto è sicuramente inaccettabile.
Il vestito a misura di Gas
I gruppi d’acquisto hanno sempre fatto fatica a trattare il tessile. «Non si tratta di comprare prodotti alimentari» commenta Roberto Margini, titolare di Equi(x)Eden. «La spesa per il guardaroba si fa due volte l’anno. Non c’è niente da fare, il vestiario lo devi vedere, indossare, ha bisogno di essere provato e toccato. C’è un momento magico quando compri il tessile, perché ti trovi a scegliere qualcosa che devi portare all’esterno, che va a costituire un po’ della tua personalità». I «gasisti» di solito mostrano poco interesse nei confronti dell’universo effimero della moda, ragion per cui i produttori si sono avvicinati ai gas cercando di smerciare le rimanenze, con un beneficio ecologico ed economico per tutti. «Abbiamo cominciato a inviare scatole di merce in offerta» racconta Margini «ma abbiamo visto che non funzionava. Il risultato alla fine non soddisfaceva nessuno. E così abbiamo cercato altre strade». Alla fine la soluzione è sempre quella: se Maometto non va alla montagna, è la montagna che va da Maometto. Gli stessi gas hanno iniziato a organizzare delle fiere del tessile ecobio nel momento di maggiore richiesta, e hanno saputo coinvolgere diversi produttori. Hanno cominciato a Ponte San Pietro, un paesino in provincia di Bergamo, con «Per Filo e per Sogno». Poi l’esperienza è stata replicata a Sassuolo (Mo), a Padova e prossimamente approderà a Valeggio sul Mincio (Vr), dove hanno già sperimentato la costruzione del Negozio Temporaneo di Abbigliamento Ecologico.
Soluzioni come queste dimostrano che la domanda e l’offerta di qualità possono incontrarsi. Se è vero che i costi di una produzione sostenibile sono sicuramente più alti, almeno si evita di pagare dei costi insostenibili per la nostra salute e per quella del pianeta.
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