Allattare al seno: fino a quando?
Al parco giochi, un trotterellino stanco e assetato va dalla mamma: «voglio lattuccio». La madre è perfettamente attrezzata per questa necessità, e così il bambino gli salta in grembo e in pochi minuti si ristora, quindi riparte, ricaricato, in direzione dello scivolo più alto.
Questa scenetta, lungi dal sollevare dubbi sull’autonomia del bambino e sulla competenza materna, suscita nei presenti tenerezza e approvazione, se l’attrezzatura è un biberon. Nessuno chiede alla donna come mai suo figlio chieda «ancora» il biberon; nessuno osserva che a questa età il latte non è «veramente necessario»; non vengono fatte previsioni sui danni che certamente questa abitudine porterà al futuro equilibrio psichico e sessuale del bambino.
Invece stupore, perplessità, imbarazzo e critiche sono il pane quotidiano della mamma che per ristorare e confortare il suo bambino grandicello utilizza il suo seno, ovvero l’attrezzatura naturalmente progettata proprio a tale scopo.
Offrire al proprio figlio il seno dopo i primi mesi viene, nella nostra cultura, definito allattamento prolungato. Questo sottintende un riferimento a una «normalità» fatta di biberon, ciucci e latte «di seguito», in cui il bambino venga svezzato dal seno all’introduzione dei cibi solidi, o al più tardi verso la fine del primo anno.
Ma cosa è veramente «normale» in senso fisiologico?
Se allattare dopo i primi mesi è così innaturale, come mai questa pratica è normalmente diffusa nella maggior parte delle popolazioni del mondo, e ha costituito la norma anche da noi fino a poche generazioni fa?
Esiste un’età «giusta» per lo svezzamento del bambino dal seno materno?
Catherine Dettwyler, un’antropologa che da decenni si interessa di allattamento al seno, ha provato a formulare delle ipotesi. Facendo una proporzione con la durata dell’allattamento nelle specie più vicine all’uomo, i primati, ha rilevato come in questi lo svezzamento avvenga in genere all’eruzione dei molari permanenti (fra i 5 e i 6 anni nell’uomo); dopo un periodo di 6 volte la durata della gestazione (per l’uomo questo corrisponderebbe a 9 mesi x 6 = 4 anni e mezzo) o a metà strada verso la maturità riproduttiva (circa 6 anni nell’uomo); quando il peso del bambino è circa un terzo del peso adulto (questo avviene nella specie umana a circa 6 anni di età); quando il sistema immunitario è completamente maturo (nel bambino, verso i sei anni).
In altre parole, i dati in nostro possesso fanno sospettare che la durata naturale dell’allattamento al seno nella specie umana vada misurata non in mesi, ma in anni. E di fatto, questo è proprio ciò che avviene nelle società in cui questo passaggio viene lasciato al bambino: questi si svezza da sé in genere verso i 3-4 anni. In effetti, se si osserva quanto a lungo perdura il bisogno di suzione, possiamo constatare che i bambini – che usino il seno, le dita, il ciuccio o il biberon – perdono interesse per quest’attività fra i due anni e la soglia dell’età scolare.
Sono termini molto lontani da quelli cui siamo abituati, eppure non si trattadi semplici ipotesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di affiancare ai cibi solidi il latte materno possibilmente fino ai due anni e precisa che, se madre e figlio lo desiderano, proseguire oltre il secondo anno non ha alcuna controindicazione: non vi sono infatti studi che dimostrino che allattare oltre l’anno rechi un danno fisico o psichico al bambino.
Questi, contrariamente a quanto si pensa, anche se allattato a lungo non presenta ritardi nel suo sviluppo o nella sua autonomia: sa badare a se stesso, effettua pasti regolari a tavola e spesso mangia da solo, sa gestire con equilibrio e iniziativa le situazioni difficili, accetta di buon grado le separazioni dalla mamma, si relaziona agli altri e spesso frequenta l’asilo senza difficoltà; le sue poppate sono in genere saltuarie, irregolari e del tutto autogestite.
Pregiudizi e verità
I pregiudizi nei confronti dell’allattamento oltre i primi mesi nascono da alcune idee infondate, come quella che il bambino vada forzato a svezzarsi o non lo farà mai da sé, che poppare sia una cosa «da neonati» (perché noi vediamo solo bambini piccolissimi al seno), o che se il bambino poppa al seno non vorrà mai mangiare altri cibi.
Questi pregiudizi pongono la mamma che allatta in una situazione conflittuale. Se sceglie di fidarsi della sensazione istintiva di benessere, tenerezza, normalità che prova nella poppata, è colpita da un pesante stigma sociale: reazioni di stupore e imbarazzo, prediche e previsioni catastrofiche… e guai a mostrarsi stressata o in difficoltà, altrimenti all’allattamento verrà subito data la «colpa» di qualsiasi problema proprio o del bambino.
La donna viene così spinta alla clandestinità, o a difendersi quotidianamente da amici, parenti, medici e anche perfetti sconosciuti, cioè proprio da quel tessuto sociale che dovrebbe invece fare corpo intorno a lei e sostenerla.
Spesso la mamma si sente dire che «ormai il latte materno non è più indispensabile». Questo tecnicamente potrebbe anche essere vero. Il bambino che mangia cibi vari e nutrienti potrebbe, ad esempio, fare a meno della mela senza per questo esserne danneggiato. Però nessuno si affanna a raccomandare alla madre, per questo motivo, di eliminarla; anzi, nessuno esorta la madre a evitare persino alimenti meno sani, perché una merendina o una caramella ogni tanto non hanno mai fatto male a nessuno. Eppure, questo argomento viene portato come giustificazione per intimare di togliere al bambino il latte materno.
E pensare che, contrariamente a quanto si sente dire, il latte della mamma continua ad avere sempre tutte le qualità nutritive, immunologiche, gli enzimi, gli ormoni e i fattori di crescita presenti nei primi mesi; anzi, vi sono ricerche che mostrano come dopo l’anno si arricchisca di altri fattori protettivi e diventi più calorico.
Inoltre, prolungare l’allattamento al seno protegge la madre dall’osteoporosi e dal cancro alla mammella, alle ovaie e all’endometrio, e il bambino dall’obesità infantile, assicurando uno sviluppo ottimale delle arcate dentali. L’allattamento a richiesta può favorire un maggiore distanziamento delle nascite, con vantaggi per la famiglia e per la salute della madre.
Non è da trascurare il consistente risparmio ottenuto da un allattamento che prosegue oltre l’anno, permettendo di evitare i costi dei latti di seguito, delle spese ortodontiche e di quelle mediche. Anche la società se ne avvantaggia, perché il bambino ancora allattato che va al nido si ammala di meno, e così anche la madre si assenta meno dal lavoro. Ma al di là di tutto questo, l’allattamento è un modo per dare al bambino una solida base emotiva e alla mamma un mezzo per accudire suo figlio in modo semplice ed efficiente: un vantaggio inestimabile per la madre di un «piccolo ciclone».
Porsi le domande giuste
Chiedersi se allattare un bambino «grande» è benefico o almeno non dannoso forse è una domanda mal posta. Una volta compreso come ogni bambino sia diverso e ciascuno si svezzi da sé quando è pronto a farlo, la domanda diventa un’altra: perché non rispettare i tempi del bambino e non lasciare che sia lui a svezzarsi spontaneamente?
Mentre non si può forzare un bambino a poppare più a lungo di quanto non voglia, si può imporgli uno svezzamento prematuro, proponendogli a tale scopo sostituti alimentari di minor valore come il latte vaccino invece del prezioso latte materno, oggetti che simulano il seno quali ciucci e biberon e sostituti affettivi (l’orsacchiotto, la bambola, la televisione…) qualunque cosa pur di non permettere al bambino di soddisfare il suo bisogno di sicurezza e contatto con un essere vivo e presente – la madre.
Così la nostra società, che teme il contatto e l’intimità ed è ossessionata dal mito dell’indipendenza affettiva, per paura di rafforzare una naturale e umanissima dipendenza del bambino dalla mamma ne crea e incoraggia altre, ma verso oggetti inanimati.
L’allattamento è una relazione a due, e pertanto quando uno dei due, madre o bambino, ne ha abbastanza, è giusto e sacrosanto che si concluda; ma non c’è alcun motivo di forzare madri e figli a questo passo quando ancora non ne sentono il bisogno, trasformando lo svezzamento in un’esperienza di lacerazione, stress e lutto.
Porsi le giuste domande, allora, significa chiedersi quali conseguenze abbia lo svezzamento precoce.
Forse a questa domanda, in fondo, possono esserci risposte semplici, che nascono dal buon senso e dall’esperienza quotidiana di migliaia di madri: un’esperienza che insegna a fidarsi della competenza di mamma e bambino, e ancora una volta esorta chi è loro vicino a non interferire, a non cercare di «aggiustare ciò che non è rotto» e sostenere entrambi, consentendo loro di godere dell’allattamento al seno e dei suoi benefici per tutto il tempo in cui decideranno di farlo, in modo che ne possa beneficiare, di riflesso, la loro famiglia e infine l’intera società.
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