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L’orto insolito che fa rifiorire la biodiversità

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Fantasia e voglia di mettere le mani nella terra: nel fare l’orto c’è tanta voglia di sperimentare. Prepariamoci per quando, terminate l’attuale emergenza e le restrizioni, si potrà tornare tranquillamente a orti e campi senza timori né vincoli. Ecco le piante che possiamo reintrodurre per fare più belli i nostri giardini e arricchire di biodiversità i nostri orti, la cucina e le nostre tavole.
L’orto insolito che fa rifiorire la biodiversità
Dimmi cosa coltivi e ti dirò chi sei. Guardando gli orti, i giardini o anche solo i balconi coltivati si può capire molto della personalità, dello stile di vita e persino della provenienza di chi semina e coltiva. Il mais o le patate sono l’espressione di chi bada al sodo, portando a casa alimenti che riempiono la pancia. Le erbe aromatiche sono per i palati fini, o per chi ama le essenze. E se avvistate distese di peperoncini piccanti o cime di rapa, potete star certi, ovunque vi troviate, che c’è lo zampino di qualche meridionale.
Ma questi sommari pregiudizi potrebbero anche cadere uno a uno. Mai come oggi, infatti, gli orti sono un terreno di sperimentazione agricola e sociale, in cui si rimescolano stili e tradizioni diverse, con una gran voglia di mettere in campo nuovi approcci e tecniche agricole, e con nuove specie e varietà che fino a qualche anno fa erano sconosciute, e che oggi fanno capolino anche negli orti sociali delle grandi città.

Una primavera urbana

Quello del giardinaggio, pur essendo un mercato piuttosto maturo in Italia, come nel resto dell’Europa occidentale, sta vivendo una primavera proprio in ambito urbano. In tutte le città italiane crescono le esperienze di orticoltura urbana. Un’indagine di Coldiretti ha stimato che il 63% di persone dedica parte del tempo libero alla coltivazione di verdure, piante e fiori. E in base ai dati diffusi da Myplant, il più grande evento fieristico dell’orto-florovivaismo in Italia, il settore del giardinaggio italiano continua a espandersi, con un fatturato di 2 miliardi e 863 milioni di euro. E a crescere maggiormente sono proprio i prodotti vegetali biologici, legati alle micro produzioni agroalimentari domestiche, insieme all’offerta di piantine aromatiche e da frutto. Ma è anche un fiorire di tecniche e approcci filosofici diversi per interpretare al meglio l’agricoltura biologica, dalla permacultura all’agricoltura sinergica, all’agricoltura organica e rigenerativa.
Nella nuova concezione l’orto diventa un’arte per mettere in gioco se stessi e la propria inventiva.

La voglia di sperimentare

Coltivando un pezzo di terra si coltiva anche un po’ se stessi. Ma negli orti c’è sempre più spazio per l’originalità. Soprattutto da quando, in tempi recenti, l’orticoltura è rinata come una sorta di hobby, un’attività outdoor per rigenerare se stessi e prendersi qualche soddisfazione nel riportare qualche prodotto coltivato con le proprie mani sulla tavola. Si tratta solo di una moda passeggera?
Sara Petrucci è un agronomo specializzato in agricoltura biologica, per diversi anni ha collaborato a progetti di orti sociali inclusivi in Lombardia, cioè con il coinvolgimento di persone con diversi tipi di fragilità. «Non si tratta solo di una moda» dice «ma anche di un modo di socializzare e riscoprire il valore della biodiversità. Credo che introdurre specie insolite o dimenticate nei nostri orti e nella nostra dieta sia una scelta sana per l’ambiente che può divertire e affascinare molto. Coltivare l’orto è un atto significativo, potremmo dire addirittura rivoluzionario, ma deve essere prima di tutto un piacere. Mettere mani nella terra, scambiare semi, coltivare e assaggiare cose nuove è oggi una spinta importante per chi si approccia all’orticoltura, ma la biodiversità può essere anche un’ottima risorsa anche per chi fa il mestiere dell’agricoltore.
L’agricoltura oggi è in crisi e tra un filare e l’altro si può decidere di investire nella produzione di un cibo diverso, pensando ad esempio alla nutraceutica».
Matteo Cereda ha trentacinque anni, si occupa di siti web per lavoro e di agricoltura per passione. Nel 2015 ha creato Orto Da Coltivare, portale dedicato alla coltivazione biologica dell’orto, che ha oltre 6 milioni di visite all’anno e una community di 85 mila ortisti su Facebook.
Nel corso degli anni si è reso conto che emergevano sempre più domande riguardo alla coltivazione di specie insolite e particolari. Col desiderio di fare agricoltura sociale ha cominciato a coltivare zafferano insieme a un gruppo di amici, è socio fondatore dell’azienda agricola Vallescuria, con cui ha sperimentato la coltivazione di altri ortaggi insoliti, quali rabarbaro e topinambur.
E allora, ha chiesto a Sara Petrucci, che collabora anche con Orto Da Coltivare, di scrivere un libro per rispondere alle tante domande degli ortisti, approfondendo bene gli argomenti. «È un testo che nasce come invito a riscoprire lo stupore e a riprendersi un po’ di quella meraviglia dimenticata» commentano i due autori. «Un invito alla pratica, che passa attraverso la coltivazione di piante diverse dal solito, fuori dagli schemi delle nostre routine. Piante poco presenti nell’orto, in cucina e nelle nostre tavole. Un libro che si presta bene per i piccoli orticoltori dilettanti, ma che regala suggerimenti preziosi anche per gli agricoltori professionisti che decidono di differenziare le loro produzioni in modo intelligente».

Ortaggi antichi

A volte le piante hanno nomi difficili da pronunciare, che fanno pensare a qualcosa di estraneo alla nostra cultura. Ma del resto la storia dell’agricoltura è frutto di un continuo scambio di semi e conoscenze, con degli sviluppi che hanno dell’imprevisto. Chi l’avrebbe detto, prima che Cristoforo Colombo tornasse dalle Americhe, che il pomodoro avrebbe fatto la fortuna della dieta mediterranea? E cosa dire di patate, melanzane, peperoni, mais, o anche più semplicemente del grano e del riso?

I nomi delle piante, nella maggior parte dei casi, sono già abbastanza indicativi del grado di familiarità o diffusione nei nostri territori. In secoli di cultura rurale abbiamo fatto nostre alcune specie «familiarizzando» il nome, a volte in modo anche bizzarro, come nel caso del «granturco», così chiamato perché era appunto una sorta di cereale esotico, definito come «turco», anche se con la Turchia ha poco a che fare. Si capisce bene che ortaggi come mizuna, okra e pack choi sono arrivati sulle nostre tavole solo recentemente dall’incrocio con altre tradizioni culinarie.

Altri prodotti come la cicerchia o la pastinaca, pur facendo parte del nostro patrimonio agricolo, sono stati dimenticati cadendo in disuso. Mentre altri sono diventati prodotti marginali, ma tipici di alcune località, come ad esempio il lampascione, una sorta di cipolla che cresce spontanea nei nostri prati.

Oggi il lampascione è poco conosciuto fuori da Puglia, Calabria e Basilicata, ma in passato è stato tenuto in grande considerazione per le sue virtù afrodisiache. Lo troviamo citato dai più celebri medici greci, come Oribasio (IV secolo A. C.), Pedanio (I secolo a. C.) e Galeno (II secolo a. C.), che lo indicano come salutare per stomaco e intestino, oltre che forte stimolante del desiderio amoroso. Quest’ultima caratteristica era particolarmente rinomata e si trova citata anche da Ovidio e Plinio il vecchio; non a caso, era costume offrire lampascioni come alimento augurale durante il pranzo nuziale. Al di là delle sue presunte proprietà, tutte da sperimentare, il muscari, questo è il suo nome scientifico, nell’orto è davvero prezioso sia per ottenere i bulbi edibili che per i suoi bei fiori azzurri, che vivacizzano i nostri giardini e richiamano molti insetti utili.

Anche la pastinaca è un esempio di ortaggio dimenticato, eppure fino al 1500 era uno degli alimenti più importanti ed apprezzati in tutta Europa, prima della comparsa della patata o della carota arancione. Ha un sapore gradevole e leggermente zuccherino, che può ricordare il gusto della castagna o della patata dolce e ha la particolarità di poter essere raccolta d’inverno, periodo in cui il raccolto di verdure è povero e c’è poca varietà, soprattutto negli orti dell’Italia settentrionale.
Ma gli ortaggi, come ci insegnano Sara e Matteo, oggi possono anche essere coltivati per dare un tocco di originalità a pergole e balconi. Il chayote, nota come «zucca centenaria» o «zucca con le spine», che di solito si consuma per farne delle piacevoli frittelle, è una pianta rampicante molto energica, invade lo spazio attaccandosi a sostegni, ma anche ad alberi o recinzioni, fino a superare i dieci metri di altezza. Potremmo decidere di piantarla sia per scopi alimentari che ornamentali, magari usandola per dare una bella copertura verde a un pergolato. «L’attributo di centenaria» spiega Sara Petrucci «se lo merita per la sua longevità: con il clima giusto possiamo tenerla perenne ed evitare di doverla seminare ogni anno. La sua coltivazione non è difficile. È poco soggetta a essere colpita da insetti e malattie, anche se è piuttosto esigente in termini di acqua e di concime. Il chayote richiede molte cure, ma fornirgliele rappresenta un ottimo investimento: una singola pianta produce dai 50 ai 100 frutti. Quindi attenzione a non piantarne troppe o verrete sommersi di zucchine spinose, fino ad averle a noia e non saper più come cucinarle».

Fiori di zafferano e radici di zenzero

Lo zafferano è una spezia preziosa, amata fin dall’antichità non solo per l’uso in cucina, ma anche per il suo impiego nella colorazione dei tessuti, degli abiti delle feste, dei corredi delle donne in età da matrimonio o delle tuniche in occasione di funzioni religiose. I suoi fiori sono coltivati anche in Italia, ma la maggior parte dello zafferano presente sul mercato proviene dall’Iran, che detiene il 90% della produzione mondiale.
Secondo l’osservatorio economico sullo zafferano, in Italia la produzione annua si aggira tra i 450 kg e i 600 kg, occupando circa 50/55 ettari di terreno. Viene coltivato soprattutto in Sardegna, Abruzzo, Toscana, Umbria e Marche. Ma stanno emergendo produttori isolati un po’ ovunque, dalla Sicilia alle Cinque Terre in Liguria, fino in Puglia. In particolare, però, è l’Abruzzo che può vantare una storia più ricca nella coltivazione di questo bel fiorellino.

Nel 2005 l’Unione europea ha riconosciuto lo Zafferano dell’Aquila come prodotto di Denominazione di origine protetta. «Se volete provare l’ebbrezza di avere nell’orto qualcosa che vale 20 mila euro al chilo, grazie allo zafferano potete farlo legalmente» spiega Matteo Cereda. «Non pensate però a facili ricchezze: per un solo grammo di questo oro rosso servono 150 fiori, pazientemente raccolti ed essiccati. Si tratta di una pianta che richiede quindi molto lavoro manuale. A prescindere dalla resa, coltivare zafferano regala molte soddisfazioni, in primo luogo quella di veder spuntare i suoi meravigliosi fiori viola. Al piacere estetico segue quello gastronomico: la spezia autoprodotta è ovviamente decisamente migliore rispetto alle bustine che si possono acquistare in un supermercato».

Anche lo zenzero, che fino a pochi anni fa era un prodotto di nicchia, praticamente sconosciuto al pubblico italiano, è salito alla ribalta con la crescita del movimento salutista in Italia. Il suo consumo è sempre più diffuso, è diventato un ingrediente dai mille usi in cucina e da circa un anno è entrato a far parte del paniere Istat. Per seminare lo zenzero non dobbiamo procurarci i semi veri e propri, ma porzioni di pianta: nello specifico i rizomi, meglio se provvisti delle prime gemme.
La buona notizia è che si può partire utilizzando lo zenzero che troviamo in qualsiasi supermercato, avendo cura di tenerlo a bagno per le dodici ore precedenti.

Non chiamatele erbacce

Alcuni le chiamano piante pioniere. Altri le classificano come piante indicatrici dello stato di salute di un campo. Ma nella maggior parte dei casi, il nome che attribuiamo a queste umili specie vegetali è quello di erbacce o infestanti. Alcune di esse sono difficili da tenere a bada e vengono spesso eliminate attraverso diserbanti o, nella migliore delle ipotesi, con l’ausilio di mezzi meccanici. Un’operazione comprensibile, quest’ultima, soprattutto se si vogliono ottenere rese maggiori dalle singole colture. Ma, in alcuni casi, l’accanimento si rivela controproducente e, come ha dimostrato ampiamente nei suoi libri Vandana Shiva, presta il fianco a una riduzione della biodiversità che porta a carenze nutritive.

Impareremo mai a non chiamarle «erbacce» ma a dar loro la considerazione che meritano? «Ci sono delle erbacce che possiamo raccogliere e cucinare negli stessi modi con cui si preparano i loro parenti “nobili”, come nel caso del farinaccio, pianta ben conosciuta dagli agricoltori, che una volta cucinato assomiglia allo spinacio» assicura Sara Petrucci. «Il caso ancora più eclatante è quello dell’amaranto, uno pseudocereale che proviene dalle Americhe e che vanta importanti proprietà nutritive, ma che nei manuali di agronomia moderni viene considerato un’erba infestante tra le più pericolose, a causa dell’elevata capacità di disseminarsi ed espandersi. Dell’amaranto si possono consumare sia le foglie, come verdura cotta, sia i semi, che negli ultimi anni cominciano a essere rivalutati. Si tratta infatti di un alimento paragonabile ai cereali, ma privo di glutine e per questo adatto a chi soffre di celiachia»

Ciò che maggiormente caratterizza l’amaranto è la ricchezza di proteine dall’elevato valore biologico, che possono arrivare ben al 16%; tra gli amminoacidi essenziali contenuti spicca la lisina, il cui tenore è doppio rispetto a quello di molti cereali (che per lo più ne sono carenti). Ma fa registrare anche un buon contenuto di minerali, in particolare calcio, fosforo, magnesio e ferro, e di fibre, che svolgono molte funzioni indispensabili per l’organismo.

La stessa cosa si può dire della portulaca, che Matteo e Sara invitano a coltivare. Un’erba commestibile, gradevole al palato e ricca di proprietà nutrizionali. In particolare, l’«erba porcellana» è una delle migliori fonti vegetali di omega-3. Si tratta di una pianta comunissima, negli orti non è particolarmente invasiva nel rubare spazio e luce alle piante coltivate, ma sottrae risorse nutritive. Anche questa però è una pianta tabù, di cui è difficile reperire le sementi. Ma una volta trovato un esemplare con i frutti formati basta prelevare un ramo e scuoterlo su un foglio di carta o in un sacchetto per raccogliere i piccoli semini neri.

Se vogliamo tornare all’autoproduzione e riappropriarci del nostro cibo, possiamo anche osare un po’ di più. Andare oltre alla rigida restrizione di nutrienti imposta dall’agricoltura industriale, scoprendo allora che anche le infestanti, insieme alle varietà cosiddette antiche o alle piante insolite, possono fare al caso nostro. Piante diverse, spesso sottovalutate, che possono arricchire di nuova linfa i nostri orti e, perché no, anche le nostre tavole.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Marzo 2020

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IL LIBRO

ORTAGGI INSOLITI

Più biodiversità nell’orto e più varietà a tavola: è questo l’invito lanciato dagli autori di Ortaggi insoliti, dedicato alla coltivazione biologica di piante di elevato valore nutrizionale e grande interesse culinario, ma poco presenti nei nostri orti. I casi più eclatanti sono quelli dello zenzero, delle bacche di goji e della stevia, diventati negli ultimi anni molto popolari per le loro riconosciute virtù, eppure ancora poco coltivati in Italia.
Meno noti al grande pubblico, ma non per questo privi di interesse, sono la cicerchia, il lampascione e la portulaca, da sempre coltivati e consumati solo in alcune zone molto ristrette.

Nella lunga lista degli ortaggi insoliti ritroviamo anche verdure di pregio d’origine asiatica, africana o sud americana, ma che ben si adattano anche al nostro clima, come il pak choi, l’okra, la minzuna, il kiwano o il chayote. Non poteva mancare il lungo elenco di ortaggi nostrani, come la pastinaca, la scorza nera, il topinambur, l’erba di San Pietro, il farinaccio, che per secoli hanno rappresentato una preziosa fonte di nutrimento, ma che oggi sono caduti nell’oblio perché soppiantati da specie più produttive o semplicemente più richieste dal mercato.
In totale nel libro vengono presentati 36 tra ortaggi, piccoli frutti e tuberi, a ognuno dei quali è dedicata una scheda approfondita con tutte le informazioni necessarie per la coltivazione. Un modo semplice e concreto per rendere i nostri orti più variegati e contrastare il processo di impoverimento della biodiversità e della nostra stessa dieta.
 

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