I cinghiali stanno spopolando. Se un paio di decenni fa la loro comparsa sul nostro territorio era salutata con entusiasmo da animalisti e amanti della natura, oggi la loro rapida diffusione sta creando un enorme problema alle popolazioni locali. I danni vanno soprattutto a scapito dell’agricoltura contadina, in quelle aree marginali e montane che avrebbero bisogno di maggiore sostegno e che svolgono un ruolo essenziale per la tutela del territorio.
I motivi dell’espansione del cinghiale negli ultimi decenni sono ormai noti. L’abbandono di agricoltura e allevamento con conseguente espansione di foreste e boscaglie ha creato nuovi habitat ed elevata disponibilità di cibo. Molte specie sono state poi ripopolate anche a scopo venatorio, con il risultato che abbiamo di fronte agli occhi.
Come affrontare il problema? Le posizioni si dividono tra chi pensa che la caccia sia la soluzione più efficace e chi invece è convinto che bisogna mettere in campo altre strategie.
Le colpe dei cacciatori
Coldiretti, la principale organizzazione di categoria del mondo agricolo, ha sempre riposto maggiore fiducia nelle doppiette, con la richiesta di ampliare la caccia anche nelle zone di riserva. Lo scorso novembre ha portato migliaia di agricoltori, allevatori e pastori giunti da tutte le regioni in piazza Montecitorio davanti al Parlamento per sollevare la questione, e un messaggio che sembra voler chiedere più libertà di caccia.
«L’eccessiva presenza di selvatici rappresenta un rischio» evidenzia la Coldiretti, per l’agroalimentare italiano, visto che proprio nei piccoli comuni sotto i 5 mila abitanti «si concentra il 92% delle produzioni tipiche nazionali (secondo lo studio Coldiretti/Symbola) con ben 270 dei 293 prodotti a denominazione di origine (Dop/Igp) italiani riconosciuti dall’Unione europea».
Le associazioni ambientaliste sono sempre state contrarie a piani straordinari di abbattimento, adducendo una tesi che lascia spazio a poche interpretazioni: sono i cacciatori la causa dell’aumento degli esemplari. Negli anni scorsi in effetti sono state introdotte razze di cinghiali di grande taglia, provenienti da allevamenti e perfino ibridati con maiali di origine balcanica; che hanno completamente soppiantato la specie autoctona per la loro prolificità. A questo problema si somma la cattiva abitudine di alcuni cacciatori di alimentare artificialmente i cinghiali in inverno, che sommata a stagioni poco fredde ha portato ad un aumento del cibo a disposizione degli ungulati e di conseguenza all’aumento della popolazione.
«Esiste un problema reale e complesso che bisogna affrontare con strumenti seri ed efficaci e professionisti del settore, non continuando a delegare ai cacciatori la gestione della fauna italiana»: è questa la tesi con cui le associazioni animaliste (Enpa, Lac, Lav, Lipu e Wwf) hanno risposto alla manifestazione di piazza organizzata da Coldiretti. «Anzitutto è necessario mettere la parola fine a ogni pratica legale o meno di ripopolamento e foraggiamento degli ungulati» si legge nel comunicato congiunto delle associazioni. «Poi c’è il problema delle vendite illegali delle carni, che può raggiungere un giro di affari di milioni di euro ogni anno, grazie alla disponibilità di ristoratori compiacenti e alla scarsità di controlli sanitari e fiscali. È quindi evidente che il mondo venatorio non abbia alcun interesse a ridurre la presenza di ungulati sul territorio, perché ne trae divertimento e utilità. Anzi, la stessa caccia esercitata in modalità non selettiva può far addirittura aumentare le popolazioni di cinghiali, rimuovendo gli individui di maggiori dimensioni, gli adulti, con la conseguente riproduzione anticipata degli individui più giovani, che in presenza degli adulti non si riprodurrebbero».
Le associazioni animaliste sostengono che si debbano mettere in campo quelle modalità di prevenzione e gestione del territorio che riducono la possibilità di accesso della fauna alle coltivazioni, riferendosi in particolare alle recinzioni elettrificate da installare nei periodi di maggiore vulnerabilità delle colture, soprattutto dopo la semina, con la comparsa dei germogli o dei frutti maturi. «Sono strumenti previsti dalla legge come obbligatori e prioritari, raccomandati da Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), ma largamente ignorati. Per la difesa di appezzamenti inferiore all’ettaro sono sufficienti poche ore di lavoro e poche centinaia di euro per realizzare recinzioni elettrificate a prova di cinghiale nei periodi più delicati. Azioni realizzabili grazie ai relativi fondi messi a disposizione dai Piani di sviluppo rurale cofinanziati dall’Unione europea, finora scarsamente utilizzati».
Caccia di selezione come ultima ipotesi
Secondo le associazioni, le catture con abbattimenti selettivi devono rappresentare l’ultima ipotesi. Dovrebbero in ogni caso essere effettuate «esclusivamente da personale pubblico adeguatamente formato a livello tecnico e scientifico, e in nessun modo in conflitto di interesse rispetto all’effettiva riduzione dei danni, da valutare e verificare su basi scientifiche per trovare soluzioni sempre più efficaci».
La contrapposizione tra mondo agricolo produttivo e conservazione della natura forse sembra superata. Anche le aree naturali protette hanno infatti interesse a una drastica riduzione dei cinghiali all’interno del loro territorio. «Questi animali non fanno solo danni alle colture agricole» ha dichiarato il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri, «li fanno anche alla biodiversità. Penso alle essenze vegetali, a partire da quelle più delicate, come le orchidee e tante altre piante, così come danneggiano la piccola fauna». La posizione di Federparchi in effetti è più vicina a quella degli allevatori.
«C’è un’enorme proliferazione di cinghiali su tutto il territorio nazionale a cui occorre mettere un freno» ha dichiarato Sammuri intervenendo alla manifestazione promossa da Coldiretti. La proposta di Sammuri è di estendere il reato penale, già previsto per chi dà cibo ai cinghiali, anche nei confronti di coloro che disturbano le operazioni di contenimento della specie. Infatti, le azioni di disturbo costituiscono, secondo Sammuri, uno dei motivi per cui a volte le operazioni di contenimento sono difficoltose. Ma resta da capire come si debbano svolgere tali interventi.
Gli esperti, in definitiva, credono che la caccia, se applicata in modo selvaggio, possa aggravare il problema. La classica battuta di caccia, detta anche «braccata», con la squadra di cacciatori e l’uso dei cani che spingono le prede verso una zona di appostamento, provoca l’uccisione soprattutto di individui adulti, sia perché più facili da mirare sia perché sono quasi sempre in testa al branco. «Ma in questo modo gli esemplari più giovani si riproducono prima e la fertilità aumenta, perché aumentano le risorse disponibili», sostiene il Wwf in un comunicato.
Non a caso il Tar Toscana ha recentemente sospeso questo tipo di caccia al cinghiale. La caccia di selezione, al contrario, prevede piani di abbattimento pianificati e mirati. Ma perché siano realizzabili, secondo Ispra «servono più investimenti in personale, più coordinamento tra i parchi e maggiore collaborazione da parte degli agricoltori, perché senza una mappatura aggiornata dei danni non è facile capire dove intervenire».
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