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Io imparo da solo

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Le neuroscienze offrono un fondamento all’approccio dell’unschooling, scelto in Italia da un numero crescente di famiglie. Come quella di Elena Piffero: tre figli che non sono mai andati a scuola. È lei l’autrice del libro che sta riscuotendo interesse in tutto il Paese.
«Ciao bambini, cosa ci fate in giro stamattina, non dovreste essere a scuola?». Oppure: «Come sarebbe a dire che non mandate i vostri figli a scuola? Ma l’istruzione è obbligatoria, no? E cosa fate? Lezione voi a casa? E gli amici, la socializzazione?». Domande comuni in una giornata normale per Elena Piffero e la sua famiglia: il marito Barak e i tre figli che… non sono mai andati a scuola. Elena e Barak hanno scelto quello che si chiama unschooling, un approccio educativo che prevede di non inserire i bambini in una struttura scolastica e di non fare le classiche lezioni, nemmeno a casa, permettendo quindi l’apprendimento spontaneo, «sollecitato ovviamente dagli opportuni stimoli » puntualizza Elena, che è autrice del libro Io imparo da solo (Terra Nuova Edizioni), la cui uscita ha generato immediato interesse perché illustra «le solide basi che la neuroscienza offre in questa direzione».
Elena, lei sostiene (e lo ha messo in pratica con i suoi figli) che l’apprendimento possa avvenire anche se non eterodiretto, che sia meglio per il bambino apprendere in modo spontaneo senza che nessuno «gli insegni». Ci spieghi cosa intende, visto che molti restano spaesati sentendo queste affermazioni.
Probabilmente chi rimane spaesato non si è mai fermato a pensare alla mole incredibile di quello che ha imparato, da solo e con pochissimi interventi di insegnamento mirato, un bambino di quattro o cinque anni che non sia mai andato né a scuola né all’asilo: dal movimento al linguaggio, alle norme culturali, al riconoscimento e all’espressione delle proprie emozioni. Non ci sono ragioni pedagogiche né biologiche per pensare che oltre i sei anni non possa continuare a fare quello che ha fatto prima, seguendo i propri tempi e i propri ritmi, in pressoché totale autonomia e apparentemente senza sforzo.
Incluso imparare a leggere e a scrivere: i bimbi unschooler sparsi per il mondo lo dimostrano.
Le informazioni nella vita quotidiana sono indifferenziate, allo stato grezzo: i bambini devono lavorarci su, metabolizzarle, trovare i collegamenti e risolvere le contraddizioni in maniera molto più intensa che nello studio strutturato. Viene richiesto quindi un impegno cognitivo più alto, uno sforzo di sintesi che è alla base di come la conoscenza non solo viene trasmessa ma progredisce, e questo è un allenamento importante. Il tutto senza le pressioni, e le possibili conseguenti resistenze, indotte da un sistema in cui obiettivi e traguardi sono stabiliti da altri.
Ci sono basi scientifiche e pedagogiche che giustificano e supportano questo approccio?
Ci sono molti studi di psicologia e pedagogia, alcuni recentissimi, a sostegno dell’apprendimento spontaneo. Vorrei ricordare in particolare una scoperta rivoluzionaria, quella dei neuroni specchio. Negli anni ’90 un’équipe di studiosi guidata da Giacomo Rizzolatti ha osservato (nelle scimmie e poi nell’uomo) che il sistema dei neuroni che si attiva solitamente quando si compie un’azione si attiva anche quando si osserva un altro individuo compiere la stessa azione: da qui il nome di «neuroni specchio». Essi producono risposte automatiche e inconsapevoli, che permettono anche ai neonati di essere in grado di riprodurre i movimenti e le espressioni che vedono: così, intorno alle sei settimane di vita, cominciano a sorridere. I neuroni specchio dimostrano che la nostra innata capacità di imparare dal punto di vista della fisiologia cerebrale risiede prima di tutto nell’istinto a imitare, a empatizzare e a integrarci nella società.
Ecco la risposta all’immancabile domanda: «E la socializzazione?». Il modo migliore di favorire l’apprendimento di un bambino è proprio cercare attivamente quante più occasioni possibili di farlo partecipare alla vita sociale. L’istinto a imitare quello che i membri adulti della società fanno garantisce che le aree più importanti della cultura di quello specifico gruppo vengano assimilate dai bambini: se il gruppo usa quotidianamente la parola scritta, i bambini impareranno a leggere e scrivere perché quello che è importante per gli adulti lo diventa anche per loro.
Ci sono esperienze, al di là di quelle di singole famiglie come ad esempio la sua, di più ampio respiro, magari «strutturate», che costituiscono una sorta di esempio o dimostrazione?

L’affinità più marcata è con le scuole libertarie, in cui l’esperienza dell’apprendimento spontaneo avviene in un contesto collettivo. I risultati degli studenti in termini accademici sono del tutto paragonabili a quelli delle scuole tradizionali, col vantaggio che le traiettorie individuali di ciascun bambino vengono rispettate. L’unschooling tenta però di riportare l’educazione fuori dall’istituzione scolastica e di reinvestire la società della sua funzione educante. È una riflessione che ha sviluppato in profondità il professor Paolo Mottana1 e che si trova in filigrana anche negli interventi di Greta Thunberg: ci insegnate che il clima sta cambiando sui banchi di scuola, ma quando usciamo da lì vediamo che gli adulti ignorano il problema e non si adoperano per affrontarlo. I ragazzi si sentono giustamente presi in giro se i sistemi promuovono logiche diverse. L’unschooling richiama inoltre i genitori a riappropriarsi del ruolo naturale di punto di riferimento per i bambini e i ragazzi, un ruolo che è fondamentale dal punto di vista della biologia e della psicologia dello sviluppo. Richiede quindi un allontanamento radicale dalla genitorialità autoritaria, la disponibilità a un dialogo autentico e a relazioni più paritarie e rispettose anche tra genitori e figli: un bel valore aggiunto.

Cosa vi ha spinto a fare questa scelta e ad arrivare a queste conclusioni, visto che lei e suo marito vi siete formati frequentando la scuola convenzionale?
Per quel che mi riguarda, un’autoanalisi spietata della mia esperienza nella scuola dell’obbligo, alla luce di quello che mano a mano leggevo a proposito dell’unschooling. La noia, la pressione dei voti, la sedentarietà forzata, i piccoli atti di bullismo subiti da «brava studentessa», il tempo sottratto alle mie passioni per eseguire compiti decisi da altri: il disagio che ho sempre visto come un problema mio ha cominciato a emergere come un problema del sistema, nonostante le buone intenzioni degli insegnanti. Mio marito, che ha attraversato molti ambiti in campo educativo, dall’insegnamento superiore e universitario alla divulgazione tecnico-scientifica, ha riconosciuto che alla luce della sua esperienza quello che ha sempre funzionato meglio è stato l’apprendimento informale e che quindi l’unschooling costituisce una valida opzione.
Ritiene che ai suoi figli possa venire meno un’opportunità? Che senza titolo di studio formale e riconosciuto potranno trovarsi in difficoltà in futuro?
Penso al contrario che, lontani dai test standardizzati e dalle rigide tappe dell’istruzione scolastica, abbiano l’opportunità di seguire le loro passioni più autentiche, di dare libero sfogo alla loro creatività e di fiorire in tutta la loro originalità. L’esame di prima media in ogni caso è un esame di Stato ed è obbligatorio; quando sarà ora di affrontare le superiori, spero che ci arriveranno con una maggiore maturità e consapevolezza e potranno decidere se frequentare o meno. In Italia del resto si può anche passare l’esame di maturità da privatisti. Trovo significativo comunque che alcune tra le migliori università a livello internazionale tra cui Massachusetts Institute of Technology, Harvard, Stanford e Duke University negli Stati Uniti reclutino attivamente giovani tra gli homeschoolers, perché ne riconoscono e apprezzano la forte motivazione e il pensiero laterale.
Ci sono anche approcci che parlano di unlearning, cioè disimparare. Cosa ne pensa?
L’unlearning riguarda la nostra capacità di riconoscere i modelli mentali sulla cui base operiamo, di decidere se sono adeguati o no alle sfide che ci troviamo davanti e di costruircene di nuovi, se necessario. Mi verrebbe da dire che un genitore che voglia scegliere l’unschooling per i propri figli deve passare attraverso un processo di unlearning, ossia di rimessa in discussione radicale del proprio modo di pensare e vedere, prima di tutto il proprio modo di vedere l’apprendimento. Come Albert Einstein ha detto una volta: «Non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di pensare che abbiamo usato quando li abbiamo creati».
 
Note
1. Paolo Mottana è docente di filosofia dell’educazione all’Università Milano Bicocca e uno dei membri fondatori di Tutta un’altra scuolawww.tuttaunaltrascuola.it
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Dicembre 2019

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IL LIBRO

«Come sarebbe a dire, che non mandate i vostri figli a scuola? Ma non è obbligatorio? E allora come fanno a imparare a leggere, a scrivere e a far di conto? E in che senso, imparano da soli? E la socializzazione?».
Queste domande nascono spontanee quando si affronta il tema dell’unschooling, e il libro che avete tra le mani cerca di fornire le risposte a partire dall’esperienza di chi ha fatto questa scelta per i propri figli.
L’apprendimento spontaneo in un ambiente familiare e sociale incoraggiante e ricco di stimoli, costituisce un valido percorso di istruzione, anzi di autoistruzione, in grado di sostituire quello scolastico. I bambini semplicemente continuano, come hanno fatto in millenni di evoluzione, a imparare da soli: sono biologicamente programmati per farlo e non ne possono fare a meno.
Le numerose esperienze di unschooling sparse per il mondo ci dimostrano che i bambini, anche senza un programma didattico prestabilito e imposto dall’esterno, sviluppano con successo le loro capacità in autonomia, seguendo i propri ritmi.
Rifacendosi a un nutrito corpus di studi sull’apprendimento, le neuroscienze e la psicologia dell’età evolutiva, questo libro racconta come e perché adottare l’unschooling, riportando con decisione al centro del dibattito sull’educazione i legittimi protagonisti: i bambini.

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