La legge sul testamento biologico è stata approvata ormai due anni fa (legge 219 del 2017) ed è entrata in vigore il 31 gennaio 2018. È una legge semplice, di soli otto articoli, fatta per esser compresa da tutti e finalizzata a riconoscere e regolare l’autodeterminazione terapeutica. Eppure ci sono ancora parecchi ostacoli che si frappongono alla sua piena attuazione.
Ne parliamo con Maria Laura Cattinari, presidente nazionale dell’Associazione Libera Uscita.
Dottoressa Cattinari, cosa prevede la legge?
«Innanzi tutto, prevede che nessun trattamento sanitario può essere iniziato e proseguito senza il consenso della persona; tutte le terapie sono quindi rinunciabili, comprese alimentazione e nutrizione artificiali forzate. Poi c’è l’obbligo di assistere la persona che rinuncia alle terapie proposte con le cure palliative e la terapia del dolore, fino alla sedazione palliativa profonda continua. Fin qui la norma fa riferimento alla persona ancora in grado di autodeterminarsi. Per l’eventualità di una futura incapacità d’intendere e di volere o anche solo di comunicare, la legge prevede la possibilità, per chi lo crede, di stendere per tempo delle DAT (disposizioni anticipate di trattamento). E per dare certezza di data e firma a queste volontà indica due strade: il notaio oppure, più semplice e senza spese, il deposito presso l’Ufficio d’anagrafe del Comune di residenza. La legge prevede inoltre che chi già si trova all’interno di un processo medicalizzato per patologia cronica e invalidante o a evoluzione con prognosi infausta possa, se lo vuole, stendere, insieme al medico curante, le sue volontà sulle cure in previsione di una sopraggiunta incapacità di intendere e di volere o anche solo di comunicare. Il tutto inserito in cartella clinica. I medici sono tenuti al rispetto. Con questa legge tutti i casi che hanno riempito le cronache di questi ultimi anni, dal caso Welby al caso Englaro fino a Walter Piludu, avrebbero ricevuto risposta».
Ci sono problemi o resistenze nell’applicazione della legge? Se sì, quali? Si è di fronte a informazioni che disorientano e confondono?
«Prima di tutto, occorre farla l’informazione. Se non si sa di avere un diritto sarà ben difficile che si possa esigerne il rispetto e questo vale sia per il consenso informato che per le DAT. Per quest’ultime però la difficoltà è anche un’altra, quella di dover affrontare il tema del morire, della morte. C’è una grande paura della morte, vista come grande nemica, esorcizzata in mille diversi modi. Negli ultimi decenni poi, il “morire” avviene in ospedale e ciò ha contribuito non poco al suo occultamento. Eppure fin quasi a tutta la prima metà del Ventesimo secolo, solo i più poveri morivano in ospedale; nelle case, al capezzale dei morenti, c’erano pure i bambini. Noi riteniamo che il luogo dove morire non sia l’ospedale. La morte in ospedale dovrebbe essere l’eccezione, non la regola. La regola dovrebbe essere la morte presso il proprio domicilio, con un’assistenza 24 ore su 24 di cure palliative e del dolore o, in alternativa, se le condizioni familiari non lo consentono, in hospice, struttura che ha ben poco a che vedere con l’ospedale e dove il fine perseguito è assicurare alla persona la miglior qualità di vita possibile fino alla fine. Camere singole, alle quali, il personale sanitario bussa, prima di entrare.
Quanto alle resistenze sono purtroppo ancora forti in ambito medico. Questa legge pone la persona al centro nel rapporto medico-assistito. Questi pochi articoli sono nel loro contenuto davvero rivoluzionari, tali da creare le condizioni per una trasformazione della medicina da paternalistica, quale la conosciamo, in una medicina che possiamo chiamare “personalistica”, con al centro la persona e la sua volontà. Fino a oggi il medico è stato formato per prendere decisioni in scienza e coscienza secondo il principio di beneficenza, a prescindere dalla volontà della persona su cui andava a operare e i “pazienti” entravano, ed entrano, pienamente nel loro ruolo “subordinato”. Una “rivoluzione culturale” non si fa in un giorno. Poi sì certo, ci sarà sempre chi preferirà mettersi nelle mani dei medici confidando nelle loro decisioni, senza nulla voler sapere; ma sarà una scelta».
Quanto alle informazioni che disorientano e confondono purtroppo non mancano. Anche recentemente abbiamo letto sui giornali che si attendono ancora i decreti attuativi della legge; falso! Non si attende nessun decreto attuativo; già da tempo sono giunte alcune circolari per guidare l’operato degli Uffici d’Anagrafe. Ad esempio è stato precisato che come ricevuta di avvenuto deposito delle DAT, possono anche semplicemente rilasciare fotocopia delle DAT stesse con timbro dell’Ufficio. Altra informazione che non corrisponde al vero è quella secondo la quale la legge non può funzionare perché non ha ancora visto la luce il Registro nazionale delle DAT. Falso! Certo il Registro Telematico nazionale renderà più facile l’accesso alle DAT da parte delle strutture sanitarie. Ma le nostre DAT hanno già valore e per portarle a conoscenza dei sanitari ci sarà l’intervento del fiduciario e, se non lo si è potuto nominare, allora sarà bene tenere sempre nel portafogli un biglietto con scritto che abbiamo redatto le DAT e dove sono state depositate. Come non ricordare che al momento nessun paese europeo ha ancora il Registro telematico nazionale! Ci stanno lavorando. Non c’è nemmeno negli USA dove la legge sul Living Will (Testamento Biologico) data 1992. In realtà è auspicabile che in futuro si preveda l’inserimento delle DAT direttamente sul FSE (fascicolo sanitario elettronico)».
Quali i limiti della legge e su cosa si potrebbe migliorare?
«Il limite che abbiamo denunciato fin dall’inizio è rappresentato dal comma 5 dell’art. 4, quello appunto sulle DAT. Qui si dice che le DAT possono venir disattese dal medico in accordo con il fiduciario se non risultano sufficientemente chiare o se sono state messe a punto nuove terapie capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Fin qui tutto bene, saranno quindi disattese nel miglior interesse della persona. Ma cosa accade se non vi è accordo tra il medico e il fiduciario? Non dovrebbe essere l’ultima parola quella della persona che noi abbiamo indicato affinché sia la nostra voce per quando noi non avremo più voce? E invece no, la legge prevede che se il fiduciario non concorda con il medico, può appellarsi al giudizio terzo e definitivo del giudice tutelare. Noi vediamo in questo un inaccettabile limite alla nostra autodeterminazione terapeutica. E ci chiediamo: cosa accade nell’attesa del giudizio terzo e definitivo del giudice? Cosa fa il medico? Aspetta? Certo non possiamo che augurarci che casi simili siano rari, ma purtroppo la realtà potrebbe deluderci».
Cosa è permesso al cittadino-paziente e cosa invece non è permesso?
«Al cittadino è permesso esercitare l’autodeterminazione sulle cure, accettare o rifiutare le cure proposte. Ha il diritto di sapere tutto delle sue condizioni di salute e delle terapie possibili ma ha anche il diritto di non voler sapere nulla e di delegare una persona di fiducia (fiduciario) a dare o rifiutare il consenso alle terapie proposte. Questo nome andrà inserito in cartella clinica. E’ una possibilità molto importante e da conoscere per tutte le persone anziane o meno che non si sentono in grado di comprendere le informazioni che i medici sono tenuti a dare. La legge prevede poi che in ogni momento la persona possa avocare nuovamente a sé il diritto al consenso dissenso sulle terapie.
Non è invece permesso esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge e qui si intende fare riferimento a pratiche eutanasiche o di suicidio medicalmente assistito. Come noto il nostro codice penale con l’art. 579 punisce l’omicidio del consenziente (eutanasia) e con il 580 punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio. A questo proposito è il caso di ricordare il recente comunicato della Corte Costituzionale (25 settembre) sul caso DjFabo-Cappato, teso a modificare l’art. 580 c.p. prima di tutto distinguendo tra istigazione e aiuto e depenalizzando l’aiuto al suicidio in casi ben circoscritti che rimandano cioè a quelle che erano le condizioni in cui versava Fabiano Antoniani: 1) persona in grado di intendere di volere 2) affetta da patologia inguaribile fonte di gravi sofferenze fisiche o psichiche 3) dipendente da sostegni vitali. Si attendono ancora le motivazione della sentenza.
Sempre il comma 6 dell’art. 1 della legge 219/2017 dice inoltre che: “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Quanto sopra ha fatto pensare a un velato inserimento dell’obiezione di coscienza. In realtà il legislatore con questo comma ha inteso arginare fenomeni simili a quello del caso Stamina, richieste di terapie non ancora scientificamente ritenute valide».
Quale il valore di questo provvedimento arrivato fra tante resistenze?
«Direi che nel panorama politico di questi ultimi anni questo provvedimento ha qualcosa di quasi miracoloso. Come non ricordare che ancora nel 2013 avevamo il rischio di veder approvato in Parlamento il disegno di legge Calabrò che non riconosceva come terapie rinunciabili l’alimentazione e l’idratazione artificiali forzate! Poi certo il suo grande valore sta nel fatto che è stato il frutto di tanto impegno di tante persone! Una vera vittoria della società civile!».
Che dimensioni ha l’adesione alle DAT e l’iscrizione ai registri attivi in Italia?
«Non ci sono ancora dati ufficiali ma possiamo, senza dubbio d’esser smentiti, affermare che, dopo il varo della legge è aumentato il numero delle persone che hanno deciso di fare il “grande passo”, ma ancora rimangono una ristretta minoranza. Riteniamo sia importante ribadire che tutti gli Uffici d’Anagrafe hanno il dovere di ritirare, conservare le DAT e registrarne l’avvenuto deposito in ordine di data.
Morire bene vuol dire vivere bene. Molto resta ancora da fare per la diffusione di una cultura del morire davvero rispettosa della vita! Per veder rispettate le nostre volontà, le nostre scelte su come affrontare questa fase estrema della nostra vita e certo, non meno importante degli anni e giorni alle spalle.
Il dibattito sul “fine vita” è avviato e intenso un po’ ovunque nel mondo. Sempre più paesi aprono al suicidio medicalmente assistito e/o all’eutanasia attiva volontaria. In Olanda e in Belgio, primi due paesi al mondo a legalizzare l’eutanasia (2001-2002) per le persone ammalate di patologie inguaribili e prossime alla fine, si sta ora dibattendo circa la possibilità di legalizzare la morte assistita per persone anziane che hanno raggiunto un’età avanzata e che, pur non avendo contratto patologie inguaribili, ritengono di essere pronte per affrontare il “grande viaggio”».