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Operazione Scuole sicure: funziona davvero?

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La linea del governo nei confronti degli adolescenti e dell’uso di sostanze stupefacenti segue un approccio sempre più repressivo. Ma siamo sicuri che sia la strada migliore per aiutare i nostri ragazzi? La parola agli esperti.
Le scuole cadono a pezzi, mancano i soldi per l’ordinaria amministrazione. Ma il Governo ha deciso la linea dura, con un programma di perquisizioni con cani antidroga. Con lo scopo di creare un piano straordinario contro la droga nelle scuole ha finanziato con 2,5 milioni di euro l’operazione Scuole sicure, per «incrementare i controlli, assumere agenti della polizia locale a tempo determinato, coprire i costi degli straordinari o installare impianti di videosorveglianza».
La chiamano «emergenza educativa» invocando un clima da caserma. Ma siamo sicuri che sia la strada giusta per educare i nostri ragazzi al rispetto di sé e degli altri? Possiamo pensare semplicemente a reprimere senza dare spiegazioni e una corretta informazione sui rischi per la salute o gli aspetti più propriamente psicologici e sociali?

Controllo e pregiudizio

Il risultato pratico del programma di governo è piuttosto modesto: oltre 2 mila agenti schierati per operazioni di controllo fuori e dentro gli istituti superiori hanno portato al sequestro di 5 chilogrammi di cannabis e hashish su tutto il territorio nazionale.
«Ogni grammo requisito è costato allo Stato 500 euro, una spesa pubblica e un impiego di risorse decisamente eccessivi» ha commentato Michele Usuelli, consigliere lombardo di Più Europa.
Le ripercussioni sui ragazzi invece ce le racconta Antonio Vigilante (autore del libro A scuola con la mindfulness), professore di filosofia al liceo Piccolomini di Siena che, dopo aver visto i cani antidroga entrare nella sua classe, aveva preso carta e penna per scrivere una lettera aperta spiegando il motivo per il quale i controlli antidroga nelle scuole devono finire.
«È una pratica palesemente discriminatoria. L’uso di sostanze psicoattive è diffuso in tutta la società. L’alcol, che solo in Italia fa più di ventimila morti all’anno, è legale, viene normalmente pubblicizzato (con l’ipocrita avvertenza di bere “responsabilmente”) e il suo consumo è perfino promosso con iniziative sponsorizzate dai comuni. Durante un controllo antidroga, una bottiglia di whisky messa sotto al banco susciterebbe al più una nota disciplinare, mentre un grammo di cannabis porterebbe il possessore in questura.
È un’evidente assurdità, dal momento che una bottiglia di whisky ha conseguenze sulla salute e sulla psiche addirittura ben più gravi. C’è dietro, dunque, la percezione sociale di una sostanza: non importa la vera dannosità della stessa (altrimenti l’alcol sarebbe perseguito più della cannabis), ma il fatto che sia associata a una certa categoria sociale».
Secondo il professore si tratta di «un circolo vizioso proprio di processi discriminatori». «Per questo mi interessano i controlli antidroga» continua. «C’è dietro la stessa logica del razzismo, della discriminazione etnica, dell’esclusione sociale dei deboli. L’adolescente può essere perquisito a scuola esattamente come lo straniero, sanzionato perché sprovvisto di biglietto sul treno, può essere insultato e messo pubblicamente alla gogna. Cose impensabili per l’Adulto Maschio Bianco Integrato. Da docente, sono molto preoccupato per questa discriminazione e marginalizzazione dei giovani, nella quale colgo un vulnus che ostacola qualsiasi autentico lavoro educativo».

Porsi le domande giuste

«La scuola è il luogo in cui si informa, si analizza, si discute, si comprende» questo è il punto di partenza secondo Vigilante. E quindi bisognerebbe iniziare chiedendosi: «Cos’è una sostanza psicoattiva? Chi ne fa uso? Perché ne fa uso? La sobrietà è un valore? E se è un valore per noi, lo è anche per la società?».
«Queste sono buone domande da cui partire» continua Vigilante «per un lavoro scolastico che, nella mia visione della scuola, è un lavoro dialogico. Le prediche le lascio ai preti e ai politici».

E a proposito di politica ha fatto discutere la recente proposta dell’assessore all’istruzione del Veneto, Elena Donazzan, di istituire un test antidroga obbligatorio per tutti gli studenti dei licei veneti per «dare il colpo di grazia alle droghe nelle scuole».
Ma nessun educatore e nessun genitore mosso da un minimo di buon senso può pensare che un test antidroga possa risolvere un problema così complesso e radicato nelle società moderne.

La psicologa: servono dialogo e informazione

«Si tratta di elementi punitivi che non hanno niente a che fare con l’educazione, che significa saper ascoltare e prendersi cura dell’altro» spiega Sabrina Sozzani, psicologa, psicoterapeuta e insegnante di arti marziali. «Utilizzare il cane o qualsiasi altra azione repressiva così violenta all’interno della scuola non fa che creare distanze tra scuola e adolescenti. Ci vorrebbero degli adulti, persone competenti in materia, che possano educare attraverso la comunicazione e l’empatia, che siano capaci di contenere le emozioni dirompenti degli adolescenti. Se noi ascoltiamo i ragazzi, in un tipo di prevenzione che dovrebbe iniziare alle scuole elementari, potremmo garantire loro un’identità più strutturata e una maggiore percezione del problema: reprimerlo con le forze dell’ordine crea solo un ulteriore confronto negativo».
Nel test effettuato dagli studenti delle scuole superiori venete è emerso un dato importante, sul quale nessuno si è soffermato, e cioè che l’83% degli intervistati ritiene che sui banchi di scuola si dovrebbe affrontare di più e meglio il tema della droga e delle dipendenze. «Bisognerebbe parlarne coi ragazzi senza che loro abbiano paura di una ritorsione e dando loro una visione reale di ciò che succede nel momento in cui assumono una sostanza» continua a spiegare la psicologa. «Però, dall’altro lato bisogna dare una speranza, attraverso la stimolazione delle proprie emozioni e promuovendo ascolto e confronto.
Senza dimenticare che è necessario che, anche al di fuori della scuola, i ragazzi abbiano la possibilità di esprimere se stessi attraverso il gioco, lo sport, la lettura e la musica».
Mentre sui possibili effetti che questo tipo di azioni potrebbero avere sulla psiche dei ragazzi, la dottoressa avverte: «Ci sono tre problemi ai quali i ragazzi possono andare incontro: la perdita dell’identità, perché vengono in qualche modo colpevolizzati, la perdita dell’autostima, quindi il come loro si vedono e come pensano di essere visti dagli adulti, e poi la perdita del senso di appartenenza alla loro generazione, alla scuola e al loro gruppo, perché vengono coinvolti sia che abbiano delle “colpe”, sia che non le abbiano». Secondo la psicologa si tratta «di danni eccessivi anche a livello di crescita psicologica, perché vengono in qualche modo additati come colpevoli, quando in realtà non è così: i ragazzi vanno aiutati a diventare grandi, non colpevolizzati durante questo percorso complesso».

La rete italiana per la riduzione del danno

Una posizione molto simile a quella degli operatori aderenti alla Rete italiana per la riduzione del danno (Itardd), che alla fine del 2017 scrissero una lettera indirizzata ai dirigenti scolastici. «Sappiamo quanto la relazione e la fiducia siano gli strumenti più potenti che abbiamo noi adulti non tanto per fare “battaglie contro la droga” quanto per promuovere il benessere e favorire la crescita degli adolescenti il cui futuro è sempre più minacciato: sostanzialmente questo è il nostro lavoro» scrivevano in una lettera indirizzata ai dirigenti scolastici nel 2017.
Poi, dopo essersi chiesti se «davvero la scuola è sofferente al punto di abdicare al proprio ruolo educativo e aver bisogno di poliziotti che frugano negli zaini», concludevano scrivendo che «l’uso e l’abuso di droghe fra i ragazzi è un fenomeno sociale che la sola repressione non esaurisce». E chiudevano con questo appello: «Accogliete queste parole come l’invito di chi conosce bene i giovani e il loro rapporto, anche problematico, con le sostanze stupefacenti, ed è disposto a un confronto che aiuti a cercare una strategia e un’alleanza per governare un fenomeno complesso. Ragioniamo assieme per crescere tutti in questa crisi».

La via più veloce non è quella più efficace

Vogliamo educare o reprimere? Il primo è un atteggiamento che implica un lavoro fatto di piccoli passi, di fiducia e collaborazione in un percorso inclusivo, il secondo è l’atteggiamento di chi, a cose fatte, non ha nemmeno la voglia di fermarsi per capire cosa accade. Una strada che potrebbe aumentare la distanza tra giovani e istituzioni, isolando i ragazzi e creando un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Maggio 2019

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