Sono sempre di più i ragazzi che scelgono l’isolamento, rimanendo chiusi nelle loro camere, azzerando le relazioni ed evitando sfide e impegni: un fenomeno presente nei paesi ricchi, con economie capitalistiche ed elevata competizione. I numeri preoccupano anche l’Italia, ma si sta organizzando una rete di aiuto.
Chiusi nelle loro camere per tutto il giorno, ponti tagliati con gli amici, in fuga dalla scuola, spesso perennemente sul web (anche di notte) attraverso il computer, la loro unica finestra sul mondo: sono i giovani hikikomori, cioè i ragazzi, soprattutto nella fascia di età tra i 17 e i 25 anni, che scelgono l’isolamento sociale e «scompaiono» letteralmente dal mondo fisico, dalla società comunemente intesa.
Il fenomeno, esploso in Giappone anni fa e che dalla lingua giapponese ha mutuato il termine con cui viene definito, sta crescendo a ritmi sempre più accelerati e ha toccato l’Europa, arrivando anche in Italia. E con numeri che preoccupano.
«Non abbiamo ancora dati ufficiali su quanti casi effettivi ci siano nel nostro paese, ma si parla di centinaia di migliaia» spiega Marco Crepaldi, esperto di psicologia sociale e presidente dell’Associazione Hikikomori Italia, che sta raccogliendo le segnalazioni e le richieste di aiuto e sta cercando di organizzare risposte valide sul territorio nazionale.
Il fenomeno è ancora poco conosciuto, spesso sottovalutato o male interpretato, eppure si configura come un problema di dimensioni tali da richiedere misure e consapevolezza specifiche. «Di recente è stata diffusa una prima ricerca sul problema, che ha mappato i casi in una regione italiana, l’Emilia Romagna» prosegue Crepaldi. «L’indagine è stata condotta su 680 scuole ed è emerso che circa 370 ragazzi hanno abbandonato le lezioni per ritirarsi in casa, isolandosi. Riteniamo che i numeri siano comunque sottostimati, poiché la maggior parte dei casi colpisce ragazzi con una media di età intorno ai 20 anni, quindi già usciti da scuola e non mappabili da sondaggi che monitorano, appunto, l’abbandono scolastico».
Le cause
Naturalmente, occorre interrogarsi sulle cause profonde che hanno portato a una tale situazione. «Le ricerche scientifiche finora condotte, benché siano poche, hanno comunque evidenziato che si tratta di
un fenomeno presente nelle società economicamente sviluppate» prosegue Crepaldi. «Il comune denominatore è la pressione della società sul singolo perché si realizzi, arrivi a individuare e
ricoprire un ruolo ben preciso nella comunità. La competitività oggi è altissima e questi ragazzi rifuggono proprio dalla
competizione sociale, rifuggono dalla
ricerca del successo personale imposta dal
modello capitalistico che mette al primo posto ciò che si fa e si produce, non ciò che si è. Chi non riesce ad accettare questo tipo di corsa, di gara, e che non ha le caratteristiche comportamentali per reggerla, si arrende». «Di solito, si è di fronte a ragazzi introversi, ipersensibili, particolarmente critici, che mettono in discussione le regole sociali invece di darle per scontate, come il dover essere alla moda, avere buoni voti a scuola, trovare lavoro e farsi una famiglia» prosegue Crepaldi. «Subiscono, dunque, la società nel suo complesso e non si sentono in grado di reggerne la pressione, quindi fuggono. Si sentono inadeguati e diversi, non condividono pulsioni e disvalori; l’unico modo che trovano per reagire è isolarsi, perché questo di fatto dà loro modo di evitare qualsiasi giudizio sociale, poiché la società “non li vede”. E nascondono così anche la vergogna di non avere raggiunto gli obiettivi
secondo le aspettative degli altri. Scelgono di sparire da tutti i contesti sociali, a malapena mantengono qualche relazione diretta con i genitori».
Gli aiuti in campo
L’Associazione Hikikomori Italia è la prima nel nostro paese a occuparsi nello specifico di questo problema così pervasivo tra i giovani e, oltre alle attività di informazione e sensibilizzazione, ha organizzato anche gruppi di auto-mutuo-aiuto tra genitori e incontri con psicologi appositamente formati. «Agiamo su tre livelli, quello sociale, quello scolastico e quello familiare» prosegue Crepaldi. «A livello sociale e scolastico, cerchiamo di sensibilizzare l’opinione pubblica, teniamo incontri nelle scuole, organizziamo seminari ed eventi, siamo molto attivi anche sul web perché spesso gli hikikomori lo utilizzano per entrare in contatto con il mondo. È fondamentale che il problema emerga nella sua esatta dimensione e che sia conosciuto, perché solo così ci sarà la possibilità di far partire servizi e sostegni.
Oggi chi vive il problema è solo; spesso i medici e gli psicologi non ne hanno mai sentito parlare e tendono a confondere il fenomeno con la depressione, l’ansia, la fobia sociale, la dipendenza da internet, tutte cose che possono essere parte dell’hikikomori, ma come segnali di una situazione ben più complessa. Per quanto riguarda le famiglie, organizziamo gruppi di auto-mutuo-aiuto per genitori alla presenza di uno psicologo volontario formato appositamente da noi. Si condividono esperienze, si cerca il giusto approccio al problema.
Non è facile nemmeno per i genitori avere un figlio hikikomori, perché spesso tende a isolarsi anche da loro identificandoli come un ulteriore elemento di pressione. Dunque, si deve lavorare sul legame tra genitori e ragazzi, perché si tratta di un valore aggiunto che può favorire il cambiamento. Una volta ristabilito il rapporto, si può approdare alla psicoterapia, che coinvolgerà tutta la famiglia. Non bisogna mai agire solo sul singolo soggetto patologizzandolo, facendolo sentire come colui che ha il problema; è controproducente».
«Sto lavorando su di me per uscirne»
Tanti, dunque, sono i ragazzi che manifestano questa condizione e che, in fasi diverse del loro cammino, stanno cercando di acquisire consapevolezza per poi trovare una via d’uscita. Frederick A. è uno di loro; ha 20 anni e ha smesso di frequentare la scuola poco dopo averne compiuti 18, prima di finire la classe quarta del liceo. «È stata ed è dura, non sono nemmeno sicuro di esserne uscito del tutto, ma sto lavorando su di me» spiega. «Al momento studio e lavoro, ma quando ho iniziato a isolarmi mi trovavo in uno stato di apatia assoluta. Per almeno un anno non ho avuto la minima idea di cosa mi stesse succedendo e non capivo come poter risolvere la situazione; mi capitava spesso di trovarmi a non fare nulla per ore e ore di seguito, avevo perso ogni interesse per tutto ciò che fino a quel momento era per me importante».
«Ho cominciato a sospettare di poter rientrare nei casi hikikomori quando ho letto alcuni articoli che mi aveva passato mia madre; sembravano descrivere la mia condizione meglio di quanto per anni avessi potuto fare io. Sono passato attraverso un rapporto troppo formale con i miei genitori all’interazione con le persone, ma senza consapevolezza vera, e ora sto acquisendo una maturità crescente.
Cosa mi ha e mi sta salvando? Per me le due cose più importanti sono state la filosofia e la musica, che mi hanno rammentato nei momenti più difficili che nella vita ci sono cose che la rendono meritevole di essere vissuta. Ma ognuno deve trovare la sua strada. È la piena coscienza di sé, probabilmente, la chiave di volta. Che ti dà la forza per essere te stesso, veramente».
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