“La negatività non è lontana dalla normalità,
ma è del tutto intrecciata a essa”
Pino De Sario
Quando si parla di “negatività” si fa riferimento a quella gamma di episodi quotidiani in cui emergono i seguenti aspetti:
• i tratti dei problemi pratici, del fare, problemi tecnici e materiali;
• le dinamiche dei conflitti interpersonali e tra gruppi, gli scontri e le contese, i diverbi, i favoritismi per sé e le discriminazioni per gli altri;
• il malessere individuale, con forme di aggressività e/o di passività;
• gli episodi in cui avvengono errori operativi, di esecuzione.
I problemi riguardano la gestione di turni di vita, la spesa, gli acquisti, l’uso di tecnologie, le dinamiche tra ruoli in famiglia e nel lavoro. Alcuni esempi: la competizione tra presidente e direttore, i problemi tecnici tra produzione e commerciale in un’azienda, la gestione organizzativa dei figli, le risorse economiche insufficienti.
I conflitti implicano contrasti tra persone, tra gruppi, tra settori, tra etnie; il conflitto è una funzione relazionale umana come mangiare e bere; conflitti con collega che scredita il lavoro dell’ufficio, tensioni per caratteri divergenti, personalità che cozzano; pregiudizi, stereotipi che scattano.
Il malessere riguarda il vissuto critico e ruminante, gli impulsi aggressivi e passivi dove tutto sembra perduto; gelosia, invidia, rabbia, tristezza, disgusto, ansia, senso di sconfitta, fallimento, precarietà, frustrazione, angoscia, senso di solitudine negativa, impotenza.
Gli errori possono essere imprevisti: solitamente prendiamo decisioni giuste, ma quando si sbaglia si è talmente impegnati nel fare che non ci accorgiamo minimante dell’errore che stiamo compiendo. Per questo gli errori li vedono meglio gli altri rispetto a noi, o comunque qualcuno di esterno.
La negatività è un termine riassuntivo e generico, scelto perché ben rappresenta la frequenza, la diffusione e la quantità di condotte problematiche, critiche, oppositive, disregolate, disfattiste, fuorvianti che ogni giorno si presentano in ogni palcoscenico di vita, a casa e al lavoro.
Per negatività si intendono infatti una massa stabile e frequente di episodi, eventi e agiti nella più piena ordinarietà, ancor prima di scomodare negatività più eclatanti e di “picco”, ma comunque a esse intrecciate, quali bullismo, mobbing, stress, burnout, devianza, aggressività, abuso emotivo, prepotenze, conflitti, demotivazione, dispotismo, inciviltà.
Il perimetro di questa definizione si estende fino alle forme di negatività inconsulta (chiamata “negatività alta”). Altre forme di negatività più distruttive, antisociali, con ricorso a episodi di violenza, non rientrano quindi in nessun modo in questa definizione.
La negatività è spiacevole perché paralizza la nostra capacità di pensare, distorce la nostra percezione e i nostri vissuti, imprigiona e interferisce sul nostro agire.
La negatività ha tre provenienze essenziali:
• è naturale, dettata dalla neurobiologia, perché incapsulata nei nostri funzionamenti neurofisiologici del cervello e del corpo e perché ricevuta nelle impronte genetiche;
• è appresa, nella sfera della propria storia personale, dettata dalla psicologia, dalle relazioni con le figure di accudimento familiari e non solo;
• è ancora appresa, nella sfera delle culture e della società, tramite usanze, norme, politiche, risorse macro, leggi e altro.
Le discipline fanno un po’ fatica a dialogare e a mettere insieme queste tre provenienze, insistendo molto su punti di vista localizzati e parziali1.
La negatività è quindi pulsionale, istintuale, genetica, cerebrale (del corpo). Ma è anche automatica, inconscia, divisiva, enfatica (delle emozioni). È certamente intenzionale, voluta, replicata dentro modelli di altri, modelli di gruppi per logiche di dominanza (della razionalità). La negatività è come una freccia che ci colpisce o come una buca che sopraggiunge sul nostro cammino. E non ci si riferisce a fenomeni macro di grande portata, bensì anche a episodi piccoli, che ci capitano ogni giorno anche per più volte. La freccia o la buca possono essere un sintomo fisico, un sentimento psicologico, un accadimento di vita materiale che ci turba e ci destabilizza.
Non c’è possibilità di sfuggire a questi fenomeni ordinari, che vanno a comporre una dimensione “bassa” e normale della negatività. È la sua banalità, ben raccontata dalla filosofa tedesca Hannah Arendt2.
Vediamo adesso qualche parola chiave, in ordine sparso, di tipi di negatività:
• la fragilità degli uomini, non è un difetto di alcuni, ma la nostra condizione comune3;
• la contraddizione, la gente normalmente dice una cosa e ne fa un’altra;
• l’avversione alla perdita, la perdita ci mette talmente in allarme che siamo disposti a correre un rischio non indifferente pur di evitarla;
• l’insensibilità, stare in un limbo di freddezza con noi stessi e con gli altri;
• la crudeltà, quella ordinaria di tutti i giorni conduce a infliggere dolore agli altri, ci fa diminuire la capacità di sentire e aumentare il senso di piacere;
• la dominanza, diventiamo negativi per il piacere inebriante di sottomettere altre persone.
Le negatività tendono a sgorgare sovrabbondanti come fiumi in piena. Sono di tutti, sono frequenti, sono di tutti i contesti, di tutti ruoli e gerarchie. Perlopiù come adulti siamo senza preparazione e cultura per fronteggiarle. Ci manca un’educazione adeguata e mirata.
Note
1. A rigor del vero la neurobiologia e la psicologia stanno dialogando molto negli ultimi vent’anni.
2. Nel 1961 la Arendt, seguendo le sedute del processo al gerarca nazista Eichmann, rimase sorpresa per il fatto che il massimo responsabile organizzativo dell’Olocausto non era una riproduzione in miniatura di quel campione del male che fu Hitler, ma un uomo scialbo e insignificante, che si difendeva sostenendo di essersi limitato a eseguire nel modo più scrupoloso ordini superiori.
3. Cassano F., 2011.