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Rifiuti: tutto quello che non sai e non vorresti sapere /2

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Proseguiamo con la seconda delle tre puntate dell’inchiesta sui rifiuti realizzata da Andrea Degl’Innocenti per Terra Nuova. Nella prima parte si è trattato ampiamente il tema dei dati disponibili sul fenomeno della produzione dei rifiuti e in particolar modo della plastica. Qui si tratterà della possibile gestione e della raccolta differenziata.
Dopo avere diffusamente illustrato e avere compreso le dimensioni del problema passiamo ad analizzare le azioni che sono state messe in campo finora per provare a risolverlo. Ovvero, come è stato gestito e si sta gestendo il problema dei rifiuti che produciamo.
Le tipologie principali con cui ci “prendiamo cura” dei nostri rifiuti sono attualmente tre: conferimento in discarica, incenerimento e riciclo. Il primo è sicuramente la maniera meno efficiente di procedere in quanto si tratta di un processo in cui non vi è alcun recupero, né di energia né di materia. I rifiuti indifferenziati conferiti in discarica vengono lasciati letteralmente a marcire, generando emissioni ad alto contenuto di metano e anidride carbonica, due gas serra molto attivi. Alcune discariche più recenti sono dotate di sistemi di captazione di questi gas, molte ancora no.
Secondo un rapporto l’International solid waste association (Iswa) le discariche a cielo aperto, nelle quali ancora oggi vengono conferiti circa il 40% dei rifiuti solidi mondiali, sono fra i luoghi più inquinati al mondo e a meno di drastici interventi saranno responsabili entro il 2025 dell’8-10% delle emissioni di gas serra di origine antropica a livello globale.
L’incenerimento ha il vantaggio, rispetto alla discarica, di consentire in alcuni casi un – seppur piccolo – recupero di energia: è il caso degli inceneritori a recupero energetico o termovalorizzatori, in cui i vapori prodotti dalla combustione ad alte temperature dei rifiuti vengono utilizzati per produrre energia elettrica.
Tuttavia, come spiega Ugo Bardi, professore di chimica all’Università di Firenze ed esperto di dinamiche dei sistemi, “l’efficienza che ha l’inceneritore nel produrre energia è molto bassa e non ne vale la pena rispetto ai danni che fa in atmosfera, attraverso l’emissione di gas climalteranti. Se poi si considera il costo energetico della costruzione e del mantenimento dell’impianto, incluse le persone che ci lavorano – continua Bardi – il computo energetico potrebbe essere persino negativo”. Senza considerare il tema molto dibattuto dell’impatto negativo che gli inceneritori, o perlomeno alcuni di essi, avrebbero sulla salute umana per via dell’emissione di diossine e polveri sottili.
Rimane la raccolta differenziata, in crescita in ogni parte del globo, additata da esperti e decisori politici come la soluzione che ci salverà dalla catastrofe dei rifiuti. Ma siamo sicuri che sia così

Perché la raccolta differenziata non funziona più?

La raccolta differenziata si è diffusa su larga parte del globo e alcuni paesi, fra cui il nostro, hanno raggiunto percentuali molto alte: in Italia nel 2016 si è differenziato il 52,5% dei rifiuti urbani. A partire dall’introduzione della differenziata porta a porta, il sistema di riciclaggio è stato promosso come la risposta a livello mondiale al problema dei rifiuti, dando origine ad un commercio che secondo il Bureau of International Recycling ammonta a circa 200 miliardi di dollari.
Ma a fronte della crescita nella differenziazione dei rifiuti, permangono alcuni problemi strutturali difficili da sanare, che stanno mettendo in crisi il sistema basato sul riciclo proprio nei paesi dove questo è più diffuso.
Come funziona questo meccanismo e perché sembra essere entrato in crisi? Partiamo da una distinzione semplice ma sostanziale: raccolta differenziata dei rifiuti e riciclaggio non sono sinonimi. Per l’esattezza il riciclaggio è un processo piuttosto lungo e molto variabile a seconda del materiale che parte dalla raccolta differenziata e finisce con l’ottenimento di una nuova materia prima seconda. Ergo, raggiungere ottimi livelli di raccolta differenziata non significa necessariamente essere in grado di rigenerare il materiale raccolto e reimmetterlo sul mercato come materia prima seconda.

Il riciclaggio inizia quindi dalla differenziazione, e già qui sorgono i primi problemi. Ad oggi infatti nella maggior parte dei casi ci limitiamo a differenziare gli imballaggi, ovvero tutto ciò con cui confezioniamo o imbustiamo gli oggetti che compriamo. Questo avviene perché in molti paesi – fra cui l’Italia – sono le aziende produttrici, attraverso appositi consorzi, a prendersi carico almeno in parte dei costi di differenziazione e smaltimento dei propri imballaggi. Di conseguenza per molti materiali (plastica, vetro, acciaio) è consentito differenziare soltanto gli imballaggi e alcuni oggetti assimilati (ad esempio piatti, posate, bicchieri usa e getta in plastica).

Ora di tutti questi imballaggi che differenziamo solo una percentuale, che varia da materiale a materiale, può essere correttamente riciclata in una nuova materia prima. Per alcuni materiali, come ad esempio molti metalli, il riciclo è relativamente semplice e funziona piuttosto bene. È il caso dell’alluminio, che consente di ottenere una materia rigenerata praticamente identica all’originale. Ma nella maggior parte dei casi questo non avviene. Prendiamo il caso della plastica: in Italia gli imballaggi rappresentano il 40% del materiale messo in commercio; differenziamo circa il 70% degli imballaggi. Di questa percentuale solo il 50-60% ha un certo valore commerciale e quindi viene avviata a riciclo, il restante 40-50% è un miscuglio senza valore chiamato plasmix.
Cosa facciamo di tutto il plasmix? Esisterebbero le tecnologie per rigenerarlo o differenziarlo ulteriormente, ma lo scarso valore commerciale disincentiva le aziende a investire in tal senso. Fino al 2017 se ne faceva carico in gran parte la Cina, assieme a molti dei materiali differenziati nel mondo: grosse navi merci partivano alla volta dei porti asiatici cariche di carta da macero, vetro, plastica e altri materiali. Secondo i dati Onu nel 2016 il colosso asiatico importava 7,3 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, pari al 70% di tutti quelli raccolti e selezionati nei paesi industrializzati. Ma dal 1 gennaio 2018 Pechino ha imposto divieti all’importazione di ben 24 tipologie di materiali da riciclare, mandando in tilt l’industria della rigenerazione mondiale e mostrando gli enormi limiti strutturali di tutto il meccanismo.
Oggi il destino del plasmix, in assenza di acquirenti, resta un’incognita di cui nessuno sembra volersi veramente occupare. In parte viene inviato ad incenerimento, in parte finisce in discarica, in parte resta depositato nelle stazioni di riciclaggio, causando un numero crescente di incendi. C’è anche chi s’inventa soluzioni più fantasiose, come alcune imbarcazioni inglesi che – secondo il National Audit Office – si prendono in carico il plasmix e altri materiali di scarto per venderli a paesi esteri e invece, si sospetta, lo scaricano a largo o in discariche abusive.  Morale della favola: consumiamo un sacco di energia nel processo di raccolta, smistamento, pulizia e rigenerazione per riciclare circa il 16% della plastica complessiva.
Il discorso fatto per la plastica vale per molti altri materiali, ognuno con le sue particolarità. Nel caso del vetro ad esempio è sufficiente una bassissima percentuale di impurità per rovinare un’intera partita; nel caso della carta ci sono problemi legati all’impatto energetico e chimico del trattamento. Complessivamente si differenzia solo una percentuale del totale e si recupera solo una parte di questa percentuale per ottenere una materia con caratteristiche inferiori rispetto all’originale, con cui si potranno realizzare meno cose e che dunque avrà un prezzo di mercato più basso.

Il riciclaggio della carta

Allo stato di funzionamento attuale la raccolta differenziata sembra aver raggiunto, o forse persino superato, il proprio picco strutturale. Solo un sistema che preveda una rigidissima normativa sugli imballaggi potrebbe rendere conveniente aumentare la percentuale di recupero. Ne consegue che aumentare la percentuale di differenziata senza intervenire a monte sul sistema di produzione e imballaggio delle merci (ovvero ciò che ha fatto la politica a livello nazionale e locale negli ultimi trent’anni) è spesso inutile, e oltre una certa soglia persino controproducente.

Per capire meglio questo passaggio dobbiamo introdurre un concetto poco noto ai più, talmente poco noto che nel Movimento della Transizione viene annoverato fra i “concetti scomparsi”, messi ai margini da questo modello di sviluppo per poter continuare a crescere. Stiamo parlando dell’Eroei, Energy returned on energy invested, ovvero il rapporto fra ritorno ed investimento energetico.
Ogni volta che analizziamo un processo che riguarda direttamente o indirettamente il consumo di energia è importante tener conto di questo rapporto per capire se l’energia che impieghiamo per tenere in piedi quel processo è maggiore, minore o uguale a quella che ne ricaviamo in uscita. Nel caso della differenziata, ad esempio, ha senso domandarsi quanta energia impieghiamo per raccogliere e differenziare correttamente un materiale e quanta energia in uscita ricaviamo (o non sprechiamo) da quel materiale.
Raccogliere rifiuti porta a porta in zone a bassa densità abitativa, ad esempio, potrebbe costare – e inquinare – di più in termini di carburante rispetto a quanto non si risparmi in recupero di materia. Stessa cosa vale – a meno di grossi rischi ambientali – per il recupero del materiale disperso in natura. O per alcuni processi di pulizia e preparazione alla differenziazione. La raccolta differenziata dei rifiuti andrebbe quindi sempre commisurata con il consumo energetico complessivo del processo per capire di volta in volta se e quando ha senso applicarla. Come spiega il giornalista inglese Paul Mobbs in un recente articolo portando l’esempio della plastica, “differenziare la plastica per, diciamo, la prima metà, sarà facile. Ottenere il successivo 20% potrebbe costare un poco più di sforzo. Il 10% successivo il doppio. Per l’ultimo 20% potrebbe non produrre alcun risparmio.”
Appare dunque evidente che la raccolta differenziata, lungi dall’essere la soluzione definitiva al problema globale dei rifiuti, può rappresentarne piuttosto un tassello all’interno di un cambiamento necessario decisamente più ampio.

Letture utili

Sul tema dei rifiuti e della corretta educazione all’importanza della raccolta differenziata è uscito per i tipi di Terra Nuova Edizioni “Il segreto di patata lessa” , una splendida storia illustrata per insegnare ai bambini che i rifiuti, se differenziati, possono diventare una risorsa.

Con un linguaggio simpatico e divertente, Il segreto di Patata Lessa spiega l’importanza di differenziare in modo corretto i rifiuti. È Patata Lessa a far scoprire a Mino e Mirella, i due bambini protagonisti della storia, che un sacchetto di rifiuti si può trasformare in prezioso compost, utile per la crescita e il nutrimento di nuove piantine.
È questo il “segreto” di Patata Lessa: la cura dell’ambiente e la salvaguardia del Pianeta sono nelle nostre mani. Sono i nostri piccoli gesti quotidiani a fare la differenza.

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