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La trappola di Big Sugar

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La percentuale di zuccheri negli alimenti industriali rappresenta un’emergenza sanitaria difficile da contenere, poiché si scontra con gli interessi dei mercati e degli Stati. Se neanche le raccomandazioni dell’Oms servono, una valida alternativa è l’autoproduzione alimentare.
Zuccheri nascosti ovunque: è questa la triste realtà dei cibi industriali e confezionati, che rende assai arduo mantenersi al di sotto delle soglie di consumo raccomandate dall’Organizzazione mondiale della sanità. L’allarme è stato nuovamente lanciato da un recentissimo rapporto della stessa Oms1, che ha analizzato i fattori che favoriscono e permettono questo stato di cose, inclusi gli incentivi dei governi alla produzione e l’assenza di regole sufficientemente stringenti.
I cosiddetti «zuccheri liberi», cioè quelli aggiunti a cibi e bevande dai produttori, quelli contenuti nei dolci e quelli naturalmente presenti in miele, sciroppi, succhi di frutta e succhi concentrati, dovrebbero rimanere sotto il 5% del totale delle calorie (25 grammi al giorno per una dieta di 2000 calorie), mentre fette molto ampie di popolazione superano il 10%, arrivando a consumare 40 o anche 50 grammi di zuccheri al giorno, di cui il 90% proviene da cibi industriali.

I «trucchi» dei produttori

Anche qualora si volessero calcolare con precisione i contenuti in zuccheri di molti alimenti, sarebbe un’operazione particolarmente difficile, poiché per gli stessi prodotti possono esserci variazioni anche parecchio significative da un paese all’altro.
Per esempio, una marca di cereali da colazione leader del mercato può contenerne fino a 5 grammi in più ogni etto di prodotto a seconda del paese al quale quello stesso prodotto è destinato. Variazioni simili esistono anche per le bevande zuccherate, basti pensare che la stessa lattina di bibita di una nota marca internazionale contiene 23 grammi di zuccheri se venduta in Inghilterra, 38 se venduta in Russia, 40 se destinata ai mercati di Turchia e Turkmenistan.
Ci sono poi ampie fluttuazioni all’interno degli stessi paesi tra prodotti analoghi. Per esempio, in Inghilterra tra i diversi tipi di cereali da colazione di una famosa marca si varia da 8 fino a 37 grammi di zuccheri ogni 100 di prodotto.

Gli Stati cosa fanno?

A fronte delle innumerevoli raccomandazioni dell’Oms rivolte agli Stati affinché adottino misure efficaci per indurre i produttori a ridurre il contenuto di zuccheri, le azioni concrete non sono state moltissime e finora non si sono mostrate particolarmente efficaci.
In Italia, il Ministero della salute aveva firmato nel 2015 un protocollo con le industrie dolciarie2, secondo cui entro il 2017 avrebbero dovuto impegnarsi a ridurre il contenuto di zuccheri e altri additivi in una serie di prodotti. Resta da vedere chi, ora che siamo nel 2018, andrà a verificare che gli impegni siano stati rispettati.

In Francia, già nel 2008, il governo aveva siglato con 37 industrie alimentari un «impegno di coinvolgimento volontario» che prevedeva anche uno sforzo nella direzione della riduzione degli zuccheri. In Olanda, governo e industrie hanno siglato un accordo secondo cui, laddove possibile, entro il 2020 verrà ridotta la densità energetica di certi cibi confezionati. In Norvegia, nel 2016 il Ministero della salute ha siglato una lettera di intenti con i produttori per ridurre del 12,5% gli zuccheri aggiunti negli alimenti industriali entro il 2021. Alcuni governi hanno anche introdotto tasse sulle bevande zuccherate o etichette colorate riconoscibili dai consumatori.

Big Sugar, a chi e perché conviene

Dietro la massiccia presenza degli zuccheri negli alimenti c’è «Big Sugar», cioè potenti «cartelli», scelte di mercato e valutazioni economiche che hanno senz’altro un ruolo in ogni tipo di decisione che viene adottata. Nel mondo, 130 paesi producono 170 milioni di tonnellate di zucchero ogni anno, di cui l’80% sotto forma di canna da zucchero, il resto dalla coltivazione della barbabietola.
Si stima che decine di milioni di persone dipendano da questa industria.
L’Europa è leader nella produzione di barbabietola da zucchero, con in testa Francia e Germania3.
Dal primo ottobre dell’anno scorso è anche terminato il regime delle «quote zucchero» nella Ue che, come spiega la stessa Commissione europea4, «offre la possibilità di adattare la produzione alle effettive opportunità commerciali, esplorando in particolare nuovi mercati di esportazione, e semplifica considerevolmente l’attuale gestione della politica e gli oneri amministrativi che gravano su operatori, produttori e commercianti».
Sempre secondo l’Oms «si concorda sul fatto che la produzione europea di canna da zucchero aumenterà significativamente con l’abolizione delle quote zucchero e
che la Ue diventerà anche leader nelle esportazioni».
Peraltro, ogni paese ha incentivi o politiche di sostegno per i propri produttori ed è la stessa Oms ad affermare che «gli investimenti nella produzione e trasformazione di raccolti in questo ambito, insieme all’accesso a un’ampia varietà di mercati, rappresentano forti incentivi per produttori e trasformatori, che hanno tutto l’interesse a mantenere il business». Senza dimenticare che, per esempio, la coltivazione della canna da zucchero non richiede particolari terreni o cure né tecniche faticose di raccolta, benché abbia bisogno di notevoli quantità di acqua.
È dunque chiaro che, anche in questo come in molti altri casi, prima della salute, purtroppo, vengono gli affari. Ma è proprio vero che il consumatore non ha scelta? No, una scelta c’è. Smettere di basare la propria alimentazione quotidiana su cibi industriali, passando a cucinare ogni giorno prodotti freschi, di stagione, a prevalenza vegetale, che garantiscono il giusto equilibrio di tutti i nutrienti, senza eccessi.
 
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Marzo 2018

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