Non ci sono ancora certezze sulle possibili cause dell’autismo, ma evidenze scientifiche indicano l’esposizione ad agenti esterni e l’inquinamento ambientale come possibili fattori scatenanti. Un quadro complesso, dunque, che suggerisce percorsi terapeutici differenziati e personalizzati.
Preoccupano i numeri dell’autismo, tempo fa malattia misconosciuta e rara, oggi disturbo che, con diverse gravità e situazioni, colpisce 1 bambino su 68 secondo il Cdc americano (Centers for disease control and prevention)1, con una prevalenza nettamente maggiore tra i maschi. In Italia i dati non vengono ancora raccolti in maniera omogenea, quindi non è possibile contare su numeri affidabili, sebbene medici e operatori ammettano l’evidenza di un aumento. Mentre le strutture sanitarie del nostro paese cercano di affinare le risposte alle famiglie (benché a volte con ritardi e manifeste difficoltà), ricercatori e clinici si interrogano sulle cause di quella che appare come una sorta di “epidemia”.
Lo spettro della genetica
«Se fino a qualche anno fa era diffusa la convinzione che i disturbi dello spettro autistico (Dsa) avessero unicamente una causa genetica (e prima ancora, con Bruno Bettelheim, si dava la colpa alle cosiddette «madri frigorifero»2, nda), oggi si sta facendo sempre più strada l’ipotesi concreta di una grande influenza dei fattori ambientali che si intrecciano a una componente poligenica» spiega il dottor Maurizio Brighenti, neuropsichiatra, direttore dell’Unità operativa complessa di neuropsichiatria infantile e psicologia dell’età evolutiva dell’Azienda sanitaria di Verona, uno dei centri più rinomati in Italia per il trattamento dell’autismo. Trattamento che, prosegue Brighenti, «deve avvenire su più fronti, non solo quello riabilitativo, ma anche medico».
«La predisposizione genetica, probabilmente multigenica, pare responsabile solo di una minoranza dei casi; nella restante parte è verosimile che sia necessario un innesco ambientale, uno stimolo che trasforma la predisposizione in malattia conclamata» aggiunge il dottor Carlo Alessandria, dirigente medico alla Divisione di gastroenterologia ed epatologia dell’ospedale Molinette di Torino. «Siamo ancora agli albori, ma emerge con sempre maggior nitidezza come sotto l’ombrello della diagnosi di Dsa vi siano quadri clinici e presumibilmente fisiopatologici molto diversi. La terapia da attuare può essere diversa da soggetto a soggetto, in relazione alla probabile causa scatenante della patologia psichiatrica e alla possibile presenza di altri distretti corporei interessati dalla malattia».
E da Brighenti arriva anche una raccomandazione: «Non è affatto vero che non si può fare nulla e non deve essere questo l’approccio; c’è tanto da fare, ma occorre che informazione e formazione arrivino a coinvolgere capillarmente tutti gli operatori sanitari e le famiglie».
Essenziale la presa in carico precoce
«La cosa importante è che la diagnosi sia precoce quanto la presa in carico da parte degli operatori sanitari, in modo da intervenire prima che i comportamenti del bambino divengano stabili» prosegue Brighenti. È bene dunque iniziare il prima possibile con i programmi che agiscono sul comportamento, coinvolgendo e sostenendo anche tutta la famiglia, alleviandone il carico e prevenendo un peggioramento della situazione.
«I pediatri di base devono prestare molta attenzione a questi disturbi e avviare la famiglia ai centri di neuropsichiatria infantile quando intravedono sintomi sospetti» aggiunge Brighenti. «Il problema è che oggi i servizi hanno liste d’attesa lunghe e a volte possono trascorrere anche 4 o 5 mesi dalla richiesta della visita, prima che si arrivi alla valutazione e alla diagnosi; poi a volte occorre attendere altri 5 o 6 mesi prima di essere presi in carico dalle Ausl». (…)
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