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Quindici giorni di gelosia

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Avevo l’impressione che tu sposassi il mondo intero, eccetto me. Era il fanciullo in me che strepitava e faceva valere il suo dolore come moneta di scambio.
Mi hai fatto conoscere, perché tacerlo, il grande delirio della gelosia. Niente somiglia di più all’amore e niente gli è più contrario.
Il geloso crede di testimoniare, con le sue lacrime e le sue grida, la grandezza del suo amore. Invece non fa che esprimere quella preferenza arcaica che ognuno ha per se stesso.
Nella gelosia non ci sono tre persone, non ce ne sono nemmeno due, d’improvviso ce n’è una sola in preda ai sussulti della sua follia: ti amo, quindi sei legata da questa dipendenza, sei dipendente dalla mia dipendenza e mi devi accontentare in tutto e poiché non mi accontenti in tutto non mi accontenti in niente, e io ce l’ho con te per tutto e per niente, perché sono dipendente da te e perché non vorrei esserlo più, e perché vorrei che tu rispondessi a questa dipendenza.
Il discorso della gelosia è inesauribile.
Si nutre di se stesso e non cerca risposte, d’altronde non ne accetta nessuna – trottola, spirale, inferno.
Ho conosciuto questo sentimento per quindici giorni, ma sarebbe bastata ampiamente un’ora per conoscerlo tutto. Al quindicesimo giorno l’inferno era passato, definitivamente. Per quindici giorni ho battuto i piedi nella brutta eternità delle recriminazioni: avevo l’impressione che tu sposassi il mondo intero, eccetto me. Era il fanciullo in me che strepitava e faceva valere il suo dolore come moneta di scambio.
E poi ho visto che non ascoltavi quel genere di cose e ho capito che avevi ragione, profondamente ragione a non ascoltarle: il discorso della recriminazione non va ascoltato. Non c’è traccia d’amore in esso. Solo un rumore, un ripetere furioso: io, io, io. E ancora io.
In capo a quei quindici giorni in un attimo si è squarciato un velo. Potrei parlare quasi di rivelazione. Ce ne fu una del resto. D’un tratto per me era lo stesso se tu sposavi il mondo intero. Quel giorno ho perduto una cosa e ne ho guadagnata un’altra.
So benissimo cosa ho perduto. Ciò che ho guadagnato, non so come chiamarlo. So solo che è inesauribile.
Il bambino furioso ci ha messo quindici giorni a morire. È poco tempo, lo so: in altri casi continua a regnare instancabile, per tutta la vita. Fu il tuo riso davanti alle mie recriminazioni a far precipitare le cose.
È stato il genio del tuo riso che è penetrato dritto nel cuore del bambino despota, è stata la tua libertà che improvvisamente mi ha spalancato tutte le strade.
Dopo la morte del bambino despota, e solo dopo quella morte, poteva venire l’infanzia – un’infanzia come un amore nomade, ridente, incurante dei titoli e delle appartenenze.
Tratto da Più viva che mai di Christian Bobin (AnimaMundi Edizioni, 2017). Disponibile su: www.suonidalmondo.com

Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Febbraio 2018

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