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Olio. L’oro verde italiano al giro di boa

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Tra brevetti, reimpianti, speculazioni e scandali, l’affaire Xylella potrebbe cambiare per sempre il volto del Salento. Ma non si tratta di una semplice questione regionale. In queste terre si lotta per qualcosa di molto più grande: la tutela del patrimonio culturale e agricolo italiano.
La Puglia, primo produttore di olio di oliva in Italia, dopo il crollo delle rese registrato nel 2016 ha atteso con ansia e rabbia l’ok dell’Unione europea al reimpianto degli ulivi, dopo ripetuti rinvii e un braccio di ferro infinito.
L’affaire Xylella ha segnato pesantemente questa regione: campi di ulivi abbattuti, proteste popolari, inchieste della magistratura, pressioni politiche, scandali, colpi di scena e tanti lati oscuri. Ma, soprattutto, un paesaggio che potrebbe essere compromesso per sempre, soprattutto con la sostituzione degli ulivi autoctoni con nuove varietà. In particolare una, dal nome “beneaugurante”: Favolosa. Nome tecnico (e molto meno rassicurante): FS-17. Una cultivar brevettata dal Cnr e quindi soggetta a licenza, che però promette faville: resistente alla Xylella, auto-fertile, non ha bisogno di impollinatori, fruttifica in poco tempo, può essere utilizzata in impianti ad alta densità. La raccolta è semplice, meccanizzata, super produttiva. Veloce.
Ad oggi l’esclusiva è stata ceduta a tre vivai che hanno facoltà di moltiplicare e vendere le piante di FS-17 dando però una royalty al Cnr che in totale, compreso l’equo premio per l’inventore, è del 10% del costo delle piante commercializzate. Costo che negli ultimi mesi è lievitato di quasi il 200%.
E gli agricoltori? Presi dalla disperazione, quasi al collasso, piegati da perdite pesantissime, vedono già come una manna dal cielo la «pianta salvatrice» e il via al reimpianto, a causa del quale, però, si porterà a compimento la radicale modifica dell’intera fisionomia dell’olivicoltura pugliese. Perché da ulivi centenari e millenari di varietà autoctone (la Cellina di Nardò e l’Ogliarola leccese) e coltivati con metodi tradizionali, si passerà a coltivazioni intensive e super intensive su larga scala.

Ulivi autoctoni, addio?

«È dagli anni ’90 che si parla dello sradicamento degli ulivi autoctoni per sostituirli con intensivo e super intensivo, con cultivar che avrebbero portato l’olivicoltura a livello di piantagioni. Adesso è la Favolosa, fino a poco tempo fa era la Lecciana». A parlare, senza gioire, è Giovanni Seclì, leccese, presidente del Forum ambiente salute.
La Lecciana è una specie brevettata dalla società spagnola Agromillara che, nel dicembre 2013, quando la Xylella già devastava il Salento, stipulava con l’Università di Bari un accordo di ricerca1 per il quale l’Università si assicurava il 70% delle royalties. «Tutto questo ha portato a una lettura della vicenda Xylella o del disseccamento un po’ più ampia di quella che vorrebbero far passare» continua Seclì. «Qui si tratta di una trasformazione radicale e interessata dell’olivicoltura salentina. La Xylella sta facendo piazza pulita di quello che mai nessuno avrebbe potuto toccare. Certo si tratta di congetture, fantascienza… Ma la realtà è che qui gli ulivi non sono solo intoccabili per legge2. Sono parte della famiglia».
Che un ulivo nel Salento non è mai solo un ulivo si percepisce in ogni frase, in ogni parola. Come in quelle di Enzo Marzano, coltivatore diretto di quarta generazione, classe ’55, che con occhi tristi guarda il suo gigante di Felline, un’Ogliarola di 1600 anni, sotto al quale lui e la sua famiglia sono cresciuti: «Già i miei bisnonni coltivavano queste terre. Ed è grazie a loro se mio padre, che non aveva nulla, è riuscito a far studiare cinque figli».
Oggi il suo gigante è stremato: rami secchi, nessun fogliame; solo la lontananza delle altre piante fa percepire quello che doveva essere il diametro maestoso della sua chioma. Sul tronco pende un numero, il 10, quello dei campioni. E lui di certo campione lo è stato. «Questo è uno degli ulivi più vecchi della zona, quello lì di fianco invece è più giovane, ha solo 800 anni». Solo…

Quel 10 in realtà indica il numero di sperimentazione. «Le ho provate tutte» racconta Enzo. «Inizialmente ci hanno consigliato di tagliare al di sotto della parte malata. Poi siamo arrivati alle potature pesanti. Io intanto ho provato con vari prodotti: argento, zinco, pesticidi, fitofarmaci… E poi ancora endoterapie (iniezioni al tronco, ndr), sia italiane che spagnole. Tutto inutile. Gli esperti hanno continuato a susseguirsi, ma non c’è stato nulla da fare». Per questo, anche per Marzano reimpiantare pare essere l’unica soluzione: «Non mi importa quali ulivi. Basta che siano ulivi» dice.

Ma non tutti la pensano così. «Tanti salentini non meritano il luogo in cui vivono, non lo difendono, non restituiscono la bellezza che hanno ricevuto in dono, non proteggono la terra che li protegge e li sostiene» dice Francesca Casaluci, tra gli ideatori del progetto Salento km0, nato nel 2013 da quattro amici che, dopo molti anni lontano da casa, si sono ritrovati nella terra d’origine e hanno deciso di provare a lottare per salvarla. Si definiscono «coltivatori di cambiamento» e oggi hanno costituito una rete che raccoglie oltre quaranta realtà che propongono un’agricoltura e un’economia diverse, capaci di migliorare le condizioni ambientali e sociali del territorio, «e non di distruggerlo come in molti hanno fatto o vorrebbero fare» aggiunge Francesca. «La vicenda del disseccamento degli ulivi ci sta dicendo che niente è per sempre e che si può perdere qualcosa che sembrava eterno in men che non si dica. Ma soprattutto ci sta mostrando le fragilità di un sistema agricolo ed economico orientato esclusivamente alla produzione e al profitto». Un gigante dai piedi di argilla di cui la Favolosa non è che l’ultima trovata. Le fa eco Antonio Manni, tra i fondatori di Agricola Le Serre, uno degli ultimi frantoi salentini che fa spremitura a freddo con metodo tradizionale. Una vita dedicata all’olio. Per lui queste nuove varietà di cui si parla non sono altro che una finta soluzione: «Si tratta di specie che hanno bisogno di parecchia irrigazione e qui non c’è acqua. Stiamo parlando di varietà a drupa grossa, deboli, che necessitano di molte sostanze chimiche e la nostra terra è già abbastanza provata. Niente a che vedere con gli ulivi autoctoni salentini con frutti piccoli e resistenti, meno appetibili agli insetti, meno bisognosi di acqua e anche meno onerosi. E poi, chi l’ha detto che le varietà che oggi sembrano essere resistenti tra qualche anno lo saranno ancora?».
Se lo domanda anche Daniela Comendulli, tra i soci fondatori della cooperativa biologica Amrita: «Qui si è rotto un equilibrio. Possibile che nessuno vada a indagare sul motivo reale di questa rottura? Che senso ha reimpiantare nuove varietà? Oggi si chiama Xylella, ma domani ci sarà qualcos’altro, perché il problema è sistemico, non sintomatico. I batteri stanno reagendo a un ambiente non più consono. Gli alberi stanno andando in sofferenza… la natura ci sta mandando dei segnali. Cosa vogliamo fare?». Domande che si pongono in tanti ormai da quattro anni. Da quando per la prima volta si è sentito parlare di Xylella in Puglia.

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