Temperature estive in autunno, siccità, venti che trasportano sabbie rosse, uragani, incendi; poi, all’improvviso, piogge torrenziali che mandano in tilt persone, città, ambienti. Poi morti e black out. Siamo ormai ben oltre la prova provata dei cambiamenti climatici indotti dallo sviluppo senza freno e dall’inquinamento; ora ciò che manca è la ferma volontà di cambiare marcia e passo.
L’ultimo in ordine cronologico è l’uragano Ophelia che in questi giorni sta martoriando Irlanda e Inghilterra, con morti, black out, venti che trasportano sabbie rosse. In Spagna e Portogallo venti, siccità e temperatura ben oltre la media stagionale hanno innescato incendi devastanti. E dall’altra parte dell’Oceano, negli Stati Uniti, la California ha visto andare in fumo quasi 90mila ettari di territorio. Gli incendi hanno avuto dimensioni tali da lasciare una scia di fumo fotografata persino dallo spazio, che si estende per quasi 900 chilometri.
E in Italia «l’estate 2017 ha visto una combinazione di calura e siccità di gravità sconosciuta fino a una quindicina di anni fa nei nostri climi, ma che ora sta diventando sempre più ricorrente per effetto del riscaldamento globale» spiegano Daniele Cat Berro e Luca Mercalli.
«La dinamica del riscaldamento globale si sta rivelando più rapida di quanto affermassero gli studi precedenti» spiegavano gli scienziati solo qualche mese fa, in aprile, in occasione della Giornata della Terra. Si sta sciogliendo il permafrost, il terreno permanentemente ghiacciato che occupa 19 milioni di chilometri quadrati, circa il 24 per cento dell’emisfero settentrionale della Terra. Dalla Siberia alla Scandinavia, dal Canada all’Alaska alla Groenlandia, dove fa un freddo estremo, la terra è gelata spesso fino a quasi 1.500 metri di profondità. Nel corso degli anni il terreno ghiacciato ha «imprigionato» grandissime quantità di metano. Il metano è uno dei quattro gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale. Il caldo fa fondere il permafrost, che libera nell’atmosfera metano, che riscalda ancora di più la temperatura. E così via.
Uno studio recente di ricercatori norvegesi, inglesi e svedesi, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, ha rivelato che il permafrost è più sensibile al riscaldamento terrestre di quanto stimato, circa il 20% in più rispetto alle vecchie previsioni. Anche se si riuscisse miracolosamente a rispettare gli obiettivi climatici della COP di Parigi, ovvero un aumento della temperatura di 1,5 gradi, si perderebbero 4,8 milioni di chilometri quadrati di permafrost, un’area uguale a quella del subcontinente indiano. Se l’aumento fosse di 2 gradi, si scioglierebbe il 40% del permafrost totale del pianeta.
Già si sta registrando una impressionante tendenza allo scioglimento del permafrost nel Canada settentrionale. Un fenomeno simile avviene anche sulle Alpi, come confermano le immagini tratte dal satellite europeo Copernicus elaborate dagli scienziati austriaci dell’ufficio nazionale di Meteorologia e Geodinamica. Lo stesso si vede in Siberia, dove scienziati britannici della University of Sussex stanno monitorando una imponente «cicatrice» – chiamata il «cratere di Batagaika» – che si è aperta nel terreno fino a 100 metri di profondità, dove non c’è più ghiaccio. Un burrone lungo un chilometro, che peraltro si sta allargando di venti metri l’anno.
Naturalmente lo scioglimento del suolo perennemente ghiacciato ha anche pesanti conseguenze sull’ambiente e sul territorio, oltre che sulla natura. Il terreno in disgelo libera grandi volumi di fango e sedimenti nei fiumi e nei laghi, e poi nel mare. I ricercatori del Northwest Territories Geological Survey canadese parlano di un intensificarsi delle frane, un fenomeno che cambierà – in che modo nessuno ora lo sa – la situazione della catena alimentare marina. In Siberia si stanno moltiplicando nuovi «laghetti» nati dal nulla, mentre si moltiplica la scoperta delle cosiddette «bolle» – pare ce ne siano almeno settemila – ovvero aree in cui il terreno si solleva per la pressione del gas metano rilasciato dal sottosuolo. Da qualche anno, gli edifici del piccolo villaggio di Inuvik nei Territori settentrionali del Canada hanno cominciato ad affondare: gradualmente, progressivamente, le fondamenta delle case vanno giù.
Le parole non bastano più. Bisogna vedere i fatti da subito, non c’è tempo.