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Dell’igiene delle parole in quanto bene comune…

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Proponiamo questo lucido quanto delicato intervento di Beniamino Sidoti, giornalista e scrittore; si occupa di gioco e narrazione, di scrittura creativa e animazione alla lettura. Una lode alle parole come bene comune, come mezzo per unire e non per dividere, per accogliere e non per respingere, per arricchirci nella diversità e non per abbruttirci nell’appiattimento. Ce n’è tanto bisogno di parole così…
È agosto, si incontrano poche persone per strada: e in generale in questi anni si incontrano meno persone dal vero, il lavoro è a distanza, le amicizie si accettano, e le parole che ci circondano sono tantissime.
Eppure non guardiamo la televisione, non compriamo i giornali, ci informiamo su internet e diciamo la nostra: e abbiamo l’impressione di stare scegliendo, di scegliere le parole che usiamo e di scegliere cosa leggiamo.
Io, per esempio, mi stupisco: ed esito, perché mi verrebbe voglia di spiegare che “no, non siamo in guerra”, che la Presidente della Camera dei Deputati non c’entra con quello che capita in Catalogna o in Finlandia o in Germania. E invece mi trattengo: è un balletto di parole, e metterei in giro solo altre parole da consumare velocemente. Pure, io con le parole lavoro e di parole vivo, e le parole a volte diventano urgenti, come sa ogni bambino che fatica a stare zitto, fino a tenersi le mani davanti alla bocca per non farle scappare.
Sento che le parole sono un bene comune: che dobbiamo mantenerle pulite.
Evitando che le parole impediscano l’ascolto, anche il nostro: e cercare di non dire cose come “le cose sono più complesse” – perché chi ci sta parlando ha paura di quella complessità e non la vuole: vuole intravedere una sua strada, e magari ci sta anche chiedendo un consiglio per dove andare.
Pensando a parole che mantengano viva non dico la speranza (caspita: la parola della sinistra di questo ventennio, usata da tutti eppure nata come parola davvero intima) ma almeno la gioia di provarci.
Portando avanti tanti racconti: solo nelle dittature i racconti sono unificati, e un mondo con un solo racconto è una dittatura.
Pulendo, ogni tanto, le parole, e i fatti: con un altro punto di vista, o un pochetto di verità; in modo da dirlo che certe storie sono false. E che se continuano a girare è solo perché preferiamo una paura che conosciamo a una realtà sconosciuta.
E soprattutto, sapendo che ci saranno sempre altri che diranno cose terribili per poter guadagnare attenzione o consenso. Ma che saremo noi a decidere se quelle parole ci riguardano o meno.
Sapendo che possiamo sottrarci a questa ripetizione e vivere le parole, e i fatti, nella loro verità.
Così, sono triste per quello che sta succedendo nel mondo. E vedo che è un mondo terribile: per noi e i nostri figli.
E possiamo prendere le parole di altri: ma perché ci fanno pensare, non perché ci dicono cosa fare. O semplicemente perché ci raggiungono nel profondo.
Così, io, prendo le parole di una donna di pace che scrive libri per bambini, Emanuela Bussolati. E con lei dico “didderendé daddéro duddereddè dendà”.

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