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La filiera di Barilla

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Buongiorno, sono un vostro affezionato lettore. Vorrei segnalare una inesattezza nell’articolo « Il cibo come democrazia» del numero di maggio. La signora intervistata, Dafne Chanaz, parlando della filiera corta, afferma che «il più grosso business del Gruppo Barilla è la logistica e non la produzione di pasta».
Io lavoro in Barilla da 18 anni e vorrei informare i lettori che Barilla ha ceduto nel 2012 la Number 1 Logistics Group SpA al Gruppo FISI, proprio per concentrarsi al meglio sul suo core business (produzione di pasta, sughi, piatti pronti e prodotti da forno).
Inoltre, da qualche mese, nella sede centrale di Barilla a Parma, il trasporto del grano è passato da camion a treno per circa 1/3 del prodotto che ogni anno arriva al mulino di Pedrignano (parliamo di quasi 100 mila tonnellate); questo comporta un abbattimento del 95% delle emissioni inquinanti, con importanti benefici per l’ambiente e per la collettività.
Grazie, Matteo
Risponde Dafne Chanaz, intervistata nell’articolo.
Gentile Matteo, la ringrazio per la puntualizzazione. Il colloquio con il vostro presidente risale a qualche anno fa, quando eravate ancora i leader della «filiera lunga» in Italia, con 100 mila punti di consegna nella grande distribuzione e sei immensi «hub» di rifornimento di tir: Milano, Parma, Roma, Caserta,
Catania e Cagliari. Guido si mostrò un difensore accanito della filiera lunga, sostenendo che la filiera corta era «pericolosa» perché «meno controllata».
Questa cessione di ramo aziendale mi è sfuggita.
Barilla, va detto, è una delle poche multinazionali alimentari ad essere ancora un’azienda «familiare» non quotata in borsa. Sono contenta che abbia deciso di concentrarsi su prodotti come la pasta e i biscotti. Avete quindi venduto – bene, spero – il ramo aziendale «Number 1», che continua ad essere il vostro partner di fiducia per la distribuzione della pasta, dei sughi pronti e dei biscotti.
Come consumatore, tuttavia, mi sento di chiedervi un ulteriore sforzo. Temo che la farina dei biscotti che ci «riportano alla natura» sia ancora importata, e che il grano duro della pasta che «fa casa» sia ancora quello canadese, notoriamente irrorato di pesticida roundup per seccarne le spighe, poiché il clima umido del Canada non gli permetterebbe altrimenti di giungere a maturazione.
Un’agricoltura locale, sana, biologica, non potrebbe interessarci?
Un sistema non centralizzato ma diffuso sul territorio per la produzione di prodotti da forno e paste più sani per tutti è ipotizzabile?
Colgo l’occasione per farle queste domande poiché sono temi che preoccupano moltissimo i consumatori italiani, e le molte persone che soffrono di intolleranze al glutine o ai residui di pesticidi contenuti nelle farine industriali doppio zero.
Un cordiale saluto.

Articolo tratto dal mensile Terra Nuova

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