Scuola: basta monopolio dello Stato
La scuola di Stato non è la sola scuola pubblica possibile, perché tale è qualsiasi scuola gratuita aperta a tutti.
di Giannozzo Pucci
Lo scorso 24 giugno ho partecipato all’audizione alla Camera (dove era stata invitata anche Terra Nuova) credendo che il presidente della Commissione cultura e istruzione che l’aveva convocata, l’onorevole Luigi Gallo (Movimento 5 Stelle) volesse ascoltare pareri sulla sua “proposta di legge per la scuola aperta e diffusa”. Dopo 13 anni di esperienza con il primo asilo nel bosco italiano e dopo 6 anni di altre esperienze, mi preme un confronto sulle nuove frontiere della scuola.
Dopo un viaggio ostacolato da uno sciopero delle ferrovie e da altri imprevisti, ho assistito a 4 relazioni, apparentemente senza limiti di tempo, interessanti ma incentrate sui principi generali più che sulla legge. Quando poi si è aperto il dibattito, il tempo concesso a ogni intervento è stato di 2 minuti. L’incontro è finito presto, quindi è rimasta la sensazione che si potesse dare più libertà alla riflessione.
Nelle conclusioni, l’on. Luigi Gallo ha sottolineato che gli interventi proposti presentavano in taluni casi la legge come troppo centralista e in altri come troppo permissiva, come se fossero due analisi contrapposte, invece ritengo che siano complementari.
Dopo tanti anni di riflessioni e scambi sul tema scuola con carissimi amici di lunga data, come Gianfranco Zavalloni, Ivan Illich, la scuola di Nomadelfia e molti altri, sono arrivato alla conclusione che i rappresentanti della GILDA hanno ragione perché la scuola di Stato non è riformabile, può solo essere una scuola che seleziona e la migliore riforma per una scuola di questo tipo resta quella di tornare alla riforma Gentile. Qualsiasi cambiamento che la renda più tollerante, diffusa o aperta non può che peggiorarla. Come si fa a immaginare che migliaia di partecipanti a un concorso per pochi posti imparino qualcosa di diverso dalla selezione?
Ma la scuola di Stato non è la sola scuola pubblica possibile, perché tale è qualsiasi scuola gratuita aperta a tutti. Lo Stato deve smettere di avere sulla scuola pubblica un monopolio che, dall’Unità d’Italia, ha soffocato la libertà e quindi la versatilità dell’intelligenza italiana, non solo quella pedagogica. Non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che nel paese d’origine della Montessori ci siano relativamente poche scuole montessoriane, che sono in massima parte asili.
Non a caso don Milani ha scritto: “La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che per amore (cioè non dallo stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro figli”.
Se l’on. Luigi Gallo vuole fare una vera riforma lasci pure allo Stato il potere totale sulla scuola di Stato ma per le altre scuole solo quello di indicare il minimo che gli studenti devono sapere nei vari esami obbligatori. Lo Stato, invece, finanzi tutte le altre scuole, che siano montessoriane, steineriane, o quello che vogliono, con la metà di quello che spende per ogni studente nella scuola pubblica. Come arrivano i ragazzi a sapere le cose che lo Stato chiede non sta al Ministero determinarlo. Per tutti gli studenti fuori dalla scuola di Stato, la scuola pubblica costerebbe la metà. La metà è troppo? Facciamo un terzo? Senza complicati arzigogoli burocratici di Ausl o altro.
Questa è la strada da percorrere: “Che mille fiori fioriscano e mille scuole gareggino”. La scuola di Stato non potrà che trarre vantaggio dalla concorrenza con libere scuole rese pubbliche.
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Scuole aperte e diffuse: ripartire da quella statale
Gentile redazione,
vi scrivo in riferimento alla lettera “Scuola: basta monopolio di Stato”, a firma di Giannozzo Pucci, comparso nella rubrica Terra Nuova dei Lettori dello scorso numero, nel quale l’autore mi ha chiamato in causa in relazione al tema, a me caro, delle scuole aperte e diffuse.
Il dottor Pucci afferma che una scuola più tollerante, diffusa e capace di utilizzare a fini educativi i beni e il patrimonio comune del territorio, una scuola dunque più aperta e promotrice di processi di partecipazione, non sarebbe una soluzione percorribile e qualsiasi accorgimento rispetto al modello attuale porterebbe solo effetti peggiorativi. Il sistema d’istruzione statale attuale, sempre a suo parere, non sarebbe riformabile e può avere quale finalità principale solo quella della selezione (come si seleziona il packaging per le scaffalature nei supermercati). Ci sono problemi nei sistemi concorsuali che individuano gli insegnanti della scuola statale? Verissimo, e aggiungo che ci sono anche problemi nella formazione di base che lo Stato ha richiesto agli insegnanti.
Pucci afferma inoltre che per questa scuola la migliore mutazione possibile sarebbe quella di riportarla alla riforma Gentile. Ovvero, quella che prevedeva un’organizzazione scolastica fortemente gerarchica ed elitaria che all’epoca puntava a un modello a due velocità, nel quale l’accesso ai gradi più alti del sistema di istruzione era riservato solo a una componente minoritaria della popolazione.
Tuttavia il vero nodo contenuto nella lettera di Pucci è quello del finanziamento delle scuole paritarie e private. Come già gli ex ministri dell’istruzione Moratti e Gelmini e l’attuale titolare del Miur, Stefania Giannini, gli argomenti utilizzati da Pucci a sostegno di questa visione sono la libertà di scelta dei genitori e i costi ridotti per il finanziamento alle scuole private rispetto al sistema statale. Vorrei qui sottolineare che quei costi le scuole private li scaricano troppo spesso sulla pelle dei lavoratori, che in molti casi non vengono retribuiti o ricevono gli stipendi con mesi di ritardo. Vorrei anche ricordare quei numerosi insegnanti che fanno causa alle scuole private o che, in alcuni casi, rinunciano allo stipendio semplicemente perché il servizio in una scuola privata parificata può essere utilizzato per le assunzioni in una scuola statale.
L’invito a far gareggiare le scuole tra loro si iscrive in una logica che ci governa da vent’ anni e che sta mostrando tutti i suoi limiti, a partire dalla riforma Berlinguer fino ad arrivare al Trattato di Lisbona, attraverso il quale viene chiesto ai paesi dell’Unione di indirizzare l’istruzione verso il modello competitivo che caratterizza già il sistema produttivo: anche gli studenti oramai sono concepiti come merce all’interno di una logica basata sul profitto. Come se la competizione tra studenti, tra docenti, tra dirigenti e anche tra scuole non producesse quel malessere diffuso che pervade tutta la società e che adesso ha invaso anche il sistema d’istruzione. In questo modello il benessere del bambino, del ragazzo e della comunità scolastica diventano dettagli e passano in secondo piano.
Il Movimento 5 Stelle ha l’obiettivo di innalzare lo standard qualitativo dell’istruzione italiana e, per fare questo, i migliori metodi didattici e pedagogici devono entrare in tutte le scuole. A tale scopo è fondamentale creare una rete e un’alleanza tra il mondo scientifico e quello della scuola. Ciò che manca al comparto non sono competenze o modelli d’eccellenza ma le risorse necessarie a fare quel salto di qualità al quale noi guardiamo. E le risorse mancano perché manca la volontà politica di investire e incentivare.
In Finlandia, dove sono stato recentemente in missione, i bambini fanno tutti i giorni l’esperienza della scuola nel bosco. E la fanno nell’ambito della scuola statale.
Quanto affermo non implica una crociata contro il sistema delle scuole private, le quali hanno tutto il diritto di esistere e di svolgere appieno le loro attività ma – e anche su questo punto il M5S è sempre stato chiaro – non devono ricevere finanziamenti attraverso le tasse dei cittadini, così come previsto dalla Costituzione.
Oggi l’iniziativa privata sarebbe preziosa, a mio avviso, se finalizzata a portare maggiore qualità nella scuola statale.
Conosciamo le bellissime esperienze di cooperative del commercio equo, di associazioni ambientaliste come Greenpeace o Legambiente che già oggi interagiscono molto con alcune scuole; ci sono formatori ed esperti che avrebbero tanto da condividere e da promuovere nelle scuole; ci sono dirigenti d’impresa che potrebbero innovare alcuni dei contenuti della classe docente, per non parlare di tutto quel mondo che si è speso per l’innovazione didattica e pedagogica. E’ questo il rapporto privato e pubblico che troveremmo molto più virtuoso in una scuola che si apre al territorio e che deve riorganizzare anche il suo ramo tecnico-professionale.
In conclusione, mi rammarico per il fatto che, in occasione del convegno dello scorso 24 giugno tenutosi alla Camera e dedicato al tema dell’innovazione didattica e alla presentazione della mia proposta di legge sulla scuola aperta e diffusa, lo spazio dedicato al dibattito sia stato troppo ristretto. Sono certo che non mancheranno altre e ulteriori occasioni di confronto pubblico sul tema, che in queste settimane è oggetto di numerosi incontri realizzati in diverse regioni. Il fatto che vi sia fermento e che il confronto sia vivo è, a mio parere, il segnale della crescente “massa critica” favorevole a cambiamenti epocali del nostro sistema d’istruzione.
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La scuola che serve
di Giannozzo Pucci
In una lettera personale don Lorenzo Milani scrisse: “La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che per amore (cioè non dallo stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro figli.”
La Lettera a una Professoressa comincia con le parole
“Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi”
Due frasi che non sono solo prove della cattiva interpretazione statalista di Barbiana che ha ispirato le riforme della scuola dopo il ’68, ma sono profetiche del germinare di scuole parentali mezzo secolo dopo.
L’interpretazione statalista ha trasferito nella scuola di stato il tempo pieno di Barbiana.
I due stipendi sono diventati un obbligo per ogni nucleo famigliare e i complessi di colpa dei genitori per le loro assenze hanno prodotto una difesa ad ogni costo dei figli davanti agli insegnanti e concessioni materiali funzionali alla società dei consumi non all’educazione.
Il tempo pieno “per amore” al centro del territorio e del popolo di Barbiana è vita, il tempo pieno nelle celle dei regolamenti della scuola statale è burocrazia.
La scuola di stato può anche essere ottima, con zone di straordinaria eccellenza, ma la sua tara è la centralizzazione monopolistica dell’istruzione. Non si limita a indicare cosa devono sapere gli studenti alla fine dei vari livelli di studio, ma stabilisce i modi e i tempi: una menomazione della libertà e un avviamento al sonno burocratico in barba alla biodiversità.
L’antico presidente della Corte Costituzionale Ambrosini, aveva riassunto bene la storia delle negate libertà regionali dalla prima favorevole relazione Minghetti, vivo ancora Cavour, alle contrarie decisioni parlamentari successive che per oltre un secolo hanno bloccato le autonomie regionali e quando le hanno realizzate, la somiglianza coi vizi dello stato centralizzato è diventata un alluvione.
Lettera a una Professoressa elenca i limiti non riformabili della scuola di stato, e afferma l’autorità superiore di “qualche minuscola parrocchietta di montagna” o “del babbo e della mamma che fanno scuola ai loro bambini” a cui somigliano solo quelle scuole di stato costrette alla pluriclasse come a Cassano Irpino dove i più grandi aiutano i più piccoli sull’esempio della repubblica di Barbiana.
Ma perché quella di stato deve essere l’unica scuola pubblica? l’unica lingua italiana? l’unica grammatica? Adesso che la televisione ha unificato ben oltre la riforma Gentile, siamo più uniti?
A 50 anni dalla Lettera a una Professoressa i genitori si stanno organizzando per preparare i figli a quel futuro che percepiscono e che l’enciclica Laudato Sì ha tracciato con tanta accuratezza, anche se lo stato non c’è ancora arrivato.
Dagli asili e dalle scuole nel bosco, alla rete delle scuole senza zaino, alle scuole montessoriane e steineriane, fino alle tante scuole parentali che stanno sorgendo da Rivoli a Vasto, da Ostia a Portogruaro, da Faenza a Bellusco… per trasformarle in scuole pubbliche basta a studente una quota irrisoria di quanto si spende per ogni ragazzo nella scuola di stato. Quindi le scuole parentali, che non sono aziende private, non sono scuole private e nemmeno parificate, diventino scuole pubbliche aperte a tutti.