C’era una volta l’agricoltura biologica
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Nei primi anni 70, essere un agricoltore biologico era sinonimo di sovversivo, anarchico, hippie, gente che cercava un modello di vita reale all’utopia anticapitalista. In quel tempo agricoltura biologica ed Ecologia andavano a braccetto, per un mondo diverso dallo stato capitalista, centralista, comunista, iperindustrializzato, consumista e guerrafondaio. Dove la Monsanto forniva l’agente orange alle truppe americane in Vietnam, e oggi produce il Raundup per l’agricoltura, a base di glyphosato principale ingrediente dell’agente orange, o la Union Carbide, ( oggi Dow Chemical ) quella del disastro di Bhopal in India nel 1984, 300.000 morti, che produceva il Sevin pesticida “miracoloso” per gli agricoltori indiani il cui principio attivo (isocianato di metile) è usato come gas di sterminio dagli eserciti di tutto il mondo; multinazionali che forniscono ancora oggi gli stessi prodotti al Ministero della guerra e al Ministero dell’agricoltura.
Finita la festa del 68 alcuni di quei capelloni hippie anarchici pacifisti, abbandonano la città e si trasferiscono in campagna, su terreni marginali della collina centro italiana, terreni abbandonati dai contadini mezzadri negli anni 50, o meglio costretti dal padrone ad abbandonarli perché poco produttivi, non a caso le tre sorelle, CIA, Coldiretti, Confagricoltura, si schierarono subito apertamente contrarie a questi nuovi arrivati che sapevano pure leggere scrivere e far di conto.
Si cominciò a mettere in pratica le utopie del 68. “Piccolo è bello” di Ernest Schumacher e “Il testamento agricolo” di sir Albert Howard furono i nostri manifesti politici culturali e colturali, si capi che il mangiare era un atto politico, e che il suolo era il primo anello della catena alimentare, che la “fertilità del suolo” era la chiave del problema agricolo.
Non i concimi chimici, la mentalità NPK (azoto, fosforo, potassio) dei seguaci di Justus von Liebig, ( a onor del vero va detto che fu lo stesso Liebig ad accorgersi dell’errore alla fine della sua vita, con una serie di scritti apocalittici, oggi noti come testamento di Liebig, tenuti segreti per oltre un secolo a generazioni di agronomi, dalle università di tutto il mondo), non i pesticidi la cui pericolosità per l’eco sistema è ormai ampiamente documentata, non gli OGM, l’ultima frontiera della scienza riduzionista, che il padre della genetica italiana il Prof. Giuseppe Sermonti tentò invano di mettere in guardia i suoi studenti all’università di Perugia prima di essere isolato e deriso dall’italiota intellighenzia.
Tutti metodi agricoli che cercano di curare la malattia e non la causa che l’ha generata. “Le microbe n’est rien le terrain est tout.” (Louis Pasteur.)
In Italia il movimento del biologico muove i suoi primi passi in Toscana alla fine degli anni 70 nascono le prime associazioni: “ Cos’è biologico?”, la Fierucola, Asci, Il Coordinamento Toscano Produttori Biologici (C.T.P.B.) Quest’ultimo da vita al primo sistema di controllo autocertificato, con un pugno di giovani agronomi fortemente motivati. In pochi anni in tutte le regioni italiane si formano associazioni di produttori biologici, dal Veneto alle Marche alla Sardegna, fioriscono come funghi associazioni, dibattiti, convegni. Nasce un mercato, prima di nicchia poi di settore che fattura numeri importanti. Furono dieci anni di crescita esponenziale.
Poi come dice il Prof. Giorgio Nebbia: “ L’attenzione per l’ecologia declino presto e nuovi aggettivi più accattivanti comparvero come “verde”, “sostenibile” e, più recentemente “biologico”, da associare al nome di prodotti commerciali che un venditore vuole dimostrare “buoni”.
Fu allora che lo stato centralista, che ormai era diventato Europa, corse ai ripari. Nel 1993 viene varato a Bruxelles il primo regolamento comunitario sull’agricoltura biologica. Ci sembrò una vittoria, fu l’inizio della fine.
La strategia? Quella di sempre: “divide et impera” Separarono per legge il controllore dal controllato con la scusa del conflitto di interessi, salvo far pagare il controllo come prima agli agricoltori controllati.
Iniziò una guerra fratricida fra associazioni di controllo e associazioni di agricoltori biologici. Le prime forti delle leggi comunitarie si imposero sulle associazioni degli agricoltori chiudendo ogni rapporto, rifiutando persino una rappresentanza degli agricoltori controllati nelle commissioni di certificazione dove erano presenti consumatori e ricerca universitaria, salvo sceglierseli da soli, (come se la FIAT si scegliesse i rappresentanti sindacali) ancora una volta gli agricoltori furono relegati a servi della gleba, va sottolineato come la stragrande maggioranza delle associazioni del “biologico certificato” IFOAM compresa siano particolarmente carenti di democrazia partecipata, strutture piramidali autoreferenziali, forse solo così hanno facile accesso nei palazzi della politica?
Gli stessi giovani agronomi che pochi anni prima coinvolti dagli agricoltori biologici ne avevano sposato ideologie e politiche, che insieme avevano costruito un sistema di controllo aperto e costruttivo, gli stessi controllori che il CTPB prestò ad AIAB per essere accreditata a livello europeo, ora certificavano tutto e il contrario di tutto, l’agricoltura biologica, e l’agricoltura integrata, la piccola fattoria autosufficiente e il latifondo ad agricoltura industriale “biologica”. secondo le nuove normative CEE.
In pochi anni le associazioni regionali di agricoltori biologici certificati o meno furono spazzate via, oggi associazioni regionali di agricoltori biologici degne di questo nome non esistono più. Asci, Fierucola, AIAB, AMAB, lo stesso CTPB sono ormai degli spettri che si aggirano con nostalgia nella campagna toscana e come in Toscana lo stesso è successo nelle altre regioni.
Miglior sorte non è toccata alle associazioni di certificazione, i controllori sono stati trasformati in esattori del governo, griglie e tabelle di conformità nei minimi particolari decidono per loro, come robot si aggirano nelle loro visite ispettive controllano la burocrazia delle aziende, (in media il 90% del tempo della visita) spuntando gli innumerevoli quadratini delle tabelle di conformità che il ministero dell’agricoltura gli fornisce. ( un “regalo” del Ministro Nunzia De Girolamo, nella sua lunga carriera come ministro dell’agricoltura, tre mesi.) Umiliandoli con un lavoro che al massimo richiede una licenza media, disprezzando così quella laurea in agraria che potrebbe fruttuosamente essere messa a disposizione dell’agricoltore controllato in un ottica diametralmente opposta alle tabelle di conformità, che riconosce all’agronomo controllore la sua professionalità.
Si chiude per legge il rapporto costruttivo fra agronomo controllore e agricoltore controllato, come formulato da Schumaker in “Soil Association” in Inghilterra nel 1946.
Questo unito alla deriva mercantile a cui ci siamo assoggettati accettando acriticamente tutte le leggi che la Comunità europea ci calava dall’alto, in primis il brevetto del logo “agricoltura biologica”, (sic!) D’ora innanzi l’agricoltura biologica per legge era cosa loro. L’assioma che il settore Primario l’agricoltura produce merci “speciali” che non possono sottostare alle stesse leggi di mercato del settore Secondario l’industria, viene abilmente aggirato.
Il dado è tratto. L’agricoltura biologica diventa un metodo di coltivazione fra i tanti, che produce prodotti “che un venditore vuole dimostrare buoni”, per lo stesso mercato consumistico capitalista, allineandosi in bella vista fra i banchi dei supermercati.
Con un operazione di ingegneria genetica hanno silenziato dal DNA dell’agricoltura biologica il gene rivoluzionario… E noi siamo stati le consapevoli o inconsapevoli cavie!
Perché allora non uscire dal biologico “certificato”? Unirsi a gruppi alternativi come “garanzia partecipata”, “genuino clandestino”, “agricoltura naturale”, “mercato a Km. 0”, e tanti altri?
Perché non è solo un problema di certificazione, anche se la certificazione cosi com’é ha fallito.
E’ lo spirito associativo vero, quello capace di essere influente sulle politiche locali che è finito. Si è affievolito lo Spirito direbbe Gino Girolomoni. Abbiamo smesso di credere che avremmo cambiato il mondo, e intanto il mondo cambiava noi. Il tempo passa e lo “spirito giovanile rivoluzionario” con esso?
Che fare? Sicuramente non buttare il bambino insieme all’acqua sporca. Un grazie planetario a tutti gli agricoltori biologici certificati e non, che faticosamente in tutto il mondo, oggi in questi tempi oscuri dove i cavalieri dell’apocalisse galoppano per mari e per monti, riescono con il loro lavoro 365 giorni all’anno anno dopo anno, nonostante tutto a produrre quel poco di cibo buono che c’è.
Le utopie, le speranze i sogni di una vecchia generazione possono diventare realtà per una nuova, purché il filo “sottile” lo Spirito che le unisce non venga spezzato.
Morale? Le speranze “politiche” della mia generazione di agricoltori biologici non si sono realizzate, sicuramente molti gli errori commessi, ma nessun rimpianto, consapevoli del privilegio per essere vissuti a contatto con la Natura, qui abbiamo fatto crescere i nostri figli e i nostri nipoti.
Come dice un vecchio proverbio cinese: “…se vuoi essere felice tutta la vita fai il contadino.”
Forse l’evoluzione ha tempi più lunghi di una vita.
Abbiamo messo un seme nella terra fertile e l’abbiamo concimato con la nostra vita. Madre Terra lo custodirà con amore e un giorno, quando saremo morti, cioè concime, una nuova generazione lo vedrà nascere.