Nel tuo gruppo, ti è mai capitato di definire la parola “noi”? Eravate tutti d’accordo sul suo significato? Il racconto di un’esperienza personale maturato in un percorso di costruzione di comunità, che vuole essere uno spunto, non un punto di arrivo.
Quando ho scelto di intraprendere la vita di comunità pensavo che bastasse iniziare a vivere insieme per rendere vivo il concetto “noi”.
Dopo tre anni di esperienza, mi sono accorta che decidere insieme e gestire collettivamente uno spazio non è sufficiente a sprigionare tutta la potenza racchiusa nella parola “noi”.
Il 21 Maggio 2016 abbiamo aderito al mese europeo dell’abitare collaborativo, promuovendo una giornata “a porte aperte” nella nostra comunità. L’occasione ci ha messo nella condizione di domandarci: “come rispondiamo alle domande dei visitatori? Ognuno per sé o diamo una risposta come comunità? Ci dividiamo le cose da dire o come viene, viene? Come ci definiamo? Possiamo dire che siamo un ecovillaggio? Che cosa ci domanderanno?”
Per me è stato l’ascolto e la condivisione di ciascun parere dei miei comunardi che infine ha fatto emergere chi siamo, o meglio, a che punto siamo, in questo momento, nel nostro cammino, personale e collettivo.
E’ stato sorprendente vedere come, dopo tanto tempo, non avevamo parlato di certi aspetti; si, erano spuntati nella quotidianità, tra una chiacchera e l’altra, ma non ci siamo mai soffermati più di tanto a sviscerare parole, concetti, situazioni o stati d’animo relativi alla nostra scelta di vivere insieme. Eppure il “noi” sta proprio là dentro. Ma è cominciato ad essere chiaro in me solo quando, come comunità, ci siamo presi l’impegno di fare insieme un percorso di conoscenza reciproca profonda, con l’aiuto di facilitatori esterni. Facilitatori senza O.d.g. e guardiano del tempo, senza verbale o tecniche decisionali. Senza nulla togliere a quel tipo di facilitazione, che è utilissima per certi aspetti della vita di gruppo, quest’altro tipo di presenza ha aperto le porte per entrare nel mondo del “noi”. Nell’essenza del “noi”.
Come gli indiani d’America utilizzavano le storie di vita personali per acquisire una coscienza collettiva e quindi una consapevolezza espansa della tribù, così per la mia comunità è stata la narrazione di sé e del proprio sentire che ha creato lo spazio per la materializzazione del “noi”. Un “noi” che è più della somma delle singole parti perché chi parla viene ascoltato ma subito dopo, ogni persona del gruppo esprime ciò ha sentito, appreso, percepito, ricevuto, ritrovato, scoperto, ecc, nelle parole dell’oratore. Questo è darsi il feedback, il messaggio di ritorno, che dopo ogni circostanza espressiva, dona alla verità la multidimensionalità che gli appartiene. La verità, quello che noi sappiamo di questa cosa in questo momento, definisce un sapere collettivo che pian piano dà forza e volume alla percezione del “noi”. Ho cominciato a vedere il “noi” nelle parole fratellanza e sorellanza, autenticità e compromesso (nell’accezione onorevole del termine: promettere con, fare una promessa insieme).
Nella società contemporanea siamo bombardati in continuazione di verità piatte, sputateci addosso dalla pubblicità, da politici in cerca di seguaci, da insicuri che scappano dalla complessità. E’ molto difficile trovare nella società istituzionale qualcuno che propone ai bambini o ragazzi di discutere sulla verità, su come nasce un sapere collettivo, su che cosa significa vivere e come imparare a farlo. Stiamo diventando degli ignoranti sociali. Nella mia esperienza, ho visto che effetto fa passare da una percezione intuitiva del “noi” ad una costruzione esplicita e diretta. Questo richiede cura, tempo, spazio e continuità, un’intenzione viva e autentica. Richiede anche fare i conti con le proprie paure e esporsi al rischio. Ma se riesco a portare in questa ricerca anche leggerezza, divertimento e amore per le mie scelte, posso trovare l’essenza del “noi” e forse anche quella della vita.