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Dalla bioeconomia alle soluzioni di prossimità: per cambiare, ognuno a suo modo

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Parlare oggi di bioeconomia è rischioso: potrebbe sembrare solo il tentativo di sfruttare l’appeal del prefisso “bio” per applicarlo ad una disciplina che, incredibilmente, ne era ancora sprovvista. Ma Andrea Strozzi ci chiarisce molto bene che può invece essere una scelta di vita perché ciascuno di noi, nel suo piccolo, può cambiare il mondo a suo modo, anche cominciando coltivando un orto con il vicino che poi gli aggiusterà il rubinetto che perde.
«Nell’odierno mondo della bioetica, della biodinamica, della bioedilizia, della biotecnologia e persino della bioastronautica, sembrava davvero che mancasse soltanto la bioeconomia!»: Andrea Strozzi, autore di “Vivere basso, pensare alto” con alle spalle un lavoro in banca ben remunerato lasciato con volontà e convinzione, ci introduce con ironia a ciò che per lui costituisce il “punto”, il nocciolo di una questione che riguarda tutti noi perchè tutti noi possiamo agire.
«Oltre quarant’anni fa, fu Nicholas Georgescu-Roegen, un geniale statistico ed economista rumeno, a coniare per primo questa espressione e, soprattutto, a utilizzarla per qualificare una vastissima trattazione socioeconomica che voleva ricondurre la molteplicità delle attività umane all’interno di un rigoroso sistema di vincoli ambientali, sia in termini energetici che di materiali. Se da un punto di vistateoricola bioeconomia coincide dunque con un approccio alle attività umane rispettoso dei limiti fisiologici del nostro habitat e perseguibile solo mediante una consapevole inibizione del nostro delirio espansionistico, dal punto di vistapraticoessa riporta finalmente l’economia all’interno del suo significato etimologico, cioè “amministrazione dei beni domestici”».
«Grazie al libro “ Vivere Basso, Pensare Alto …o sarà Crisi vera” uscito pochi mesi fa per Terra Nuova, grazie al blog “ Low Living High Thinking”, grazie agli workshop organizzati in giro per la penisola e grazie, soprattutto, all’aver scelto un anno fa di abbandonare intenzionalmente un prestigioso posto fisso al servizio di quel mondo alienante ed esclusivamente orientato al profitto (unico e vero responsabile di quella che la propagandamainstream si ostina a definire “crisi economica”), posso oggi finalmente registrare con grande soddisfazione quanto i tempi siano ormai maturi – in molti ambienti – anche per assimilare un messaggio apparentemente così rivoluzionario».
Ma cosa significa, oggi, adottare comportamenti bioeconomici?
«Innanzitutto, significa raggiungere la consapevolezza che il nostro benessere dipendedirettamentedal livello di benessere della collettività a cui apparteniamo e che, conseguentemente, tale collettività dovrà quindi essere necessariamenteraggiungibile, proprio per poter concretamente consentire il ripristino di quelle dinamiche vernacolari fondate sul principio di reciprocità: in una parola, le soluzioni dovranno per forza tornare ad esseresoluzioni di prossimità. Solo in una dimensione di prossimità, infatti, tanto gli sprechi della filiera produttiva quanto ogni altra forma di sovrastruttura distributiva, possono essere ridotti ed eliminati. Un ambiente di lavoro meno invasivo e più attento al tempo libero, un sistema di mobilità più efficace, uno stile alimentare più sano e a basso impatto e, in generale, un approccio alla vita che io definiscosociocentrico(la società al centro) sono per esempio alcuni degli ingredienti virtuosi di una condotta rispettosa delle risorse ecosistemiche e dei vincoli del nostro habitat».
«Durante le (fortunatamente) numerose tappe di presentazione del mio libro ho avuto modo di conoscere e confrontarmi con tantissime realtà microcomunitarie che, ispirate da una visione strutturalmente alternativa del modo di vita moderno, hanno scelto – pur sfruttando coscienziosamente i benefici offerti dallo sviluppo tecnologico – di assecondare un’idea diversa di benessere. Uno di questi esempi è il Parco dell’Energia Rinnovabile, un prestigioso centro di ricerca e sperimentazione scientifica situato in Umbria, che è anche una struttura ricettiva concepita come soluzione abitativa realmente sostenibile, in quanto alimentata esclusivamente da fonti energetiche rinnovabili e acqua piovana. Come amo dire io, al PER si sperimenta il futuro: le soluzioni che vengono applicate sono concretamente bioeconomiche, in quanto s’ispirano a criteri di prossimità, di collaborazione, di “sufficienza” energetica (un concetto ancora più nobile e strategico di quello “efficienza”, che da sola – anziché non comprimere i consumi – di solito li espande) e di autosufficienza alimentare».
«Un altro esempio di organizzazione bioeconomica è rappresentato dai circuiti del credito alternativo, come ad esempio quello delle Mutue AutoGestioni: in particolare, la MAG6 di Reggio Emilia, che ho avuto la fortuna di conoscere da vicino, è una realtà di microfinanziamento solidale che si sottrae radicalmente ai principi dell’intermediazione tradizionale regolata dal mercato, destinando risorse economiche, consulenza e supporto progettuale ad iniziativa contraddistinte da un altissimi risvolti etici».
«Se il principio centrale del modello economico neoliberista, poi sfociato in quello che amo definire “monoteismo della Crescita”, era la cosiddetta dottrina della “ricaduta favorevole”, che postulava come il perseguimento dell’interesse individuale si traducesse inevitabilmente nell’interesse collettivo (teoria ormai ridicolizzata dalla storia), la bioeconomia capovolge senza sconti questo assunto. Solo mediante la costante tutela degli equilibri sistemici, infatti, si potranno rilasciare quelle dinamiche di equilibratura sociale capaci di garantire ad ogni persona l’armonia e il tempo libero necessari al raggiungimento del benessere. Che – ricordiamolo – rappresentava per Georgescu-Roegen la finalità ultima dell’economia».
«Come argomento anche nel libro, credo che sul piano delle condotte individuali l’attenzione vada necessariamente orientata al recupero di una dimensione vernacolare dei rapporti umani, fondata cioè sull’affermazione del valore della salvaguardia locale e (micro)comunitaria, emancipando le nostre ambizioni da quelle idealità inutilmente mondialistiche che, proprio perché si collocano su un orizzonte eccessivamente vasto, rischiano di vanificare l’efficacia della nostra azione diretta. Quello che può insegnarci oggi la bioeconomia non è come cambiare il mondo (sfruttando il pretestuoso meccanismo della delega) per cambiare poi la vita delle persone, ma è come cambiare consapevolmente le persone per cambiare di conseguenza il contesto in cui operiamo. Essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondonon significa oggi manifestare contro le irrisolte questioni planetarie, come ad esempio la deforestazione amazzonica, il potere coercitivo della Banca Centrale Europea, l’espansionismo dell’economia asiatico o il land-grabbing. No: cambiare significa più realisticamente coltivare un orto per scambiarne i prodotti con il vicino di casa, il quale saprà magari poi ripararci il rubinetto del lavandino se si rompe. Significa mettere le proprie conoscenze e capacità a disposizione di una logica di prossimità, riscoprendo i valori delle civiltà preindustriali».
«In che modo? Qualsiasi. Come amo sintetizzare, ognuno a suo modo: non esiste una ricetta unica valida per tutti, ma esiste però un comune orizzonte a cui tutti dovremo tendere. Per volontà o per necessità. Tanto vale, quindi, muoversi in anticipo. La formula sintetica è appunto “vivere basso”, che significa mettersi sobriamente a reciproca disposizione, sconfessando il dogma dell’accumulo ad ogni costo e, per una volta, smettendo di illuderci che i grandi cambiamenti possano provenire dall’alto. Perché gli organismi rappresentativi che la società umana ha fin qui saputo darsi hanno palesemente fallito: le uniche risorse che ci restano – guarda caso le più segrete e preziose – sono la nostra resilienza e la nostra creatività. Due doti in cui sappiamo eccellere e che, mai come in questi anni, appaiono abbondanti e impazienti».

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