Vorrei testimoniare e condividere un aspetto particolare della pratica con i mandala così come attuato nelle sessioni meditative e di riarmonizzazione energetica da me praticate da lungo tempo cercando di interpretare la profonda e potente simbologia del mandala riattualizzandone le virtualità di viaggio interiore, di percorso di unificazione di corpo-parola-mente in profonda interconnessione con l’alterità delle relazioni e del cosmo.
Il mandala – particolarmente nelle rappresentazioni iconografiche della tradizione buddista vajrayana che tuttavia non ne esauriscono le declinazioni, sino alle interpretazioni junghiane – è stato infatti correttamente definito come “un cosmogramma, una raffigurazione dinamica dell’universo nel suo schema essenziale, nel suo processo di emanazione e riassorbimento” (G.Tucci) e contemporaneamente uno psicogramma, una mappa, una guida alla riunificazione delle energie psichiche nel centro dell’essere, nella caverna del cuore, nello spazio del Vuoto-Pieno: vacuità di ogni pretesa sussistenza dell’io separato e separante, coincidente con l’attingimento della pienezza della Realtà indivisa, di quella che Raimon Panikkar era solito definire armonia cosmoteandrica (tra cosmo, umanità e Dio, lo sfondo e l’abisso, condizione di possibilità di ogni interconnessione)
Nella fedeltà alla tradizione del mandala ed al suo potere di guarigione inteso come recupero dell’integrità psicosomatica e spirituale, della salute originaria nel cui etimo sono custoditi i sensi di “sano”, “salvo”, “integro”, “unificato”, il lavoro armonizzativo si focalizza particolarmente sull’attivazione pratica, corporea, incarnata di un ascolto poetico del mandala che ciascuno è a se stesso, in relazione profonda con il Tutto.
Il corpo, il mistero nascosto nelle sue fibre, nella sua struttura simbolica, aperta alla relazione ed allo stesso tempo arrischiata alla contrazione nevrotica e narcisistica, all’anestetizzazione verso la bellezza ed il terribile della vita – la Bellezza come vittoria sul terribile, cicatrice salvifica – è il luogo d’accesso, il varco per ogni cura. Una cura intesa appunto come ascolto profondo dei ritmi e delle parole corporee, del corpo come palinsesto. “Vi è un testo superficiale, visibile a tutti: la superficie della laguna. Ma nell’oscurità delle acque si narra in silenzio un’altra storia. Ogni tanto emerge, indossando maschere e parlando lingue sconosciute” (Rubem Alves). Lo psicanalista “selvaggio” Groddeck si rese conto che le malattie sono messaggi strangolati. Non sono accidenti che accadono al corpo ma ideogrammi scritti dal corpo stesso, nel disperato tentativo di essere udito e compreso. Ecco dunque profilarsi su questa base la possibilità di una pratica di ricreazione “poetica” del vivere ferito – e poietès, poeta è colui che crea, ricrea, rintraccia nessi perduti, si inoltra in quella foresta di simboli che è l’esistere creaturale.
L’agire e la parola poetica, simbolica, capace di unificare i nessi del nostro mandala interiore frammentato e manifesto nel corpo ammutolito, malato, sono parola e azione che procedono dal silenzio e che contengono il silenzio in sé. L’ascolto praticato in terapia, è preceduto ed accompagnato da un profondo stato di silenzio interiore che consente di udire i ritmi, le voci del corpo oltre le interferenze egoiche, anche e soprattutto dello stesso “terapeuta”. Lentamente, attraverso procedimenti di rilassamento, respirazione, meditazione si stabilisce un contatto intuitivo, un’empatia profonda, e le strutture del mandala interiore si dispiegano, prendono voce e narrano mondi molto differenti da quelli della semplice descrizione imposta dai condizionamenti e dai determinismi psicofisici abituali.
E’ a questo punto che viene alla luce lo stato di sofferenza, di disintegrazione dei costitutivi dell’essere umano nella sua promessa e premessa di pienezza. Sentieri interrotti dalle ferite dell’esistenza, dalla paura di un abbandono alla totalità della vita, di un Sì di totale accettazione dell’Essere contraddetto dalla volontà egoica, dalla contrazione del desiderio ( e dell’avversione) su una manciata di opinioni e parole non nostre, discorsi maledetti seminati in noi sin dall’infanzia che condizionano la percezione di noi stessi e dei nostri legami con la realtà.
Guarigione e poesia, guarigione come poesia in cui la Parola d’amore nascosta nella carne e costretta al silenzio dallo strepito delle passioni – sue versioni caricaturali – libera il suo canto, il suo incanto, cantando dentro di noi dei sogni inauditi, delle immagini fondanti, archetipi divini di liberazione che trasfigurano il grumo di tensione e di paura che definiamo “corpo” in quel “Corpo Eterno dell’Uomo che è l’Immaginazione” come ebbe a dire William Blake. Non si parla certo qui di maya, di illusione quanto piuttosto del suo aspetto trascendente, creatore della Shakti, della luce radiante delle energie che plasmano in noi il corpo di diamante, aprono all’esperienza della trasparenza del corpo umano con quello cosmico in una sola vibrazione. Una pratica di illuminazione e discioglimento dei nodi profondi, dei tracciati del nostro mandala seguendo una voce, un insegnamento, un ritmo che benedice nuovamente ciò che siamo nel profondo, lascia emergere la benedizione, la danza degli elementi che ci riplasma in una perenne nascita a noi stessi ed al mondo.
I cerchi concentrici del mandala, così come gli elementi geometrici del Chorten, il monumento spirituale del buddismo tibetano, rappresentano l’archetipo e l’architettura di una progressiva ascesa attraverso gli elementi di terra, acqua aria fuoco ed etere – cui corrispondono altrettante emozioni, sia nel loro aspetto oscurato ed egocentrato che in quello liberato ed assunto ultimamente nella Compassione universale – sino al loro riassorbimento nello spazio della vacuità di una consapevolezza senza alcun contenuto, Luce ineffabile ed Energia onniavvolgente. Non tuttavia un annichilimento delle differenze ma piuttosto la loro morte-dissoluzione in quanto elementi di separatezza per rigenerarsi in una trasparenza reciproca di ciascuno in tutti e di tutti nella danza della Cosciente Vacuità.
Come affermava il grande maestro dzog-chen Dilgo Khyentse Rinpoche: “Bisogna imparare a considerare la vita di ogni giorno come un mandala in cui si occupa la posizione centrale, ed essere liberi dai preconcetti creati dai condizionamenti del passato, dai desideri del presente e dalle paure/speranze sul futuro. Le componenti del mandala sono cose, persone e situazioni della propria esperienza quotidiana, che si muovono nella grande danza dell’universo intero: il simbolismo attraverso cui gli esseri illuminati ci rivelano il profondo significato assoluto. Perciò sii spontaneo e naturale, lasciati guidare e impara da ogni cosa…Tutti gli aspetti di ogni fenomeno sono caratterizzati dalla chiarezza, dalla luminosità. Tutto l’universo è aperto e non ostruito, ogni cosa pervade tutte le altre e ne è pervasa. Quando si vedono tutte le cose nella loro nudità, con chiarezza e libertà dalle oscurazioni, non c’e’ nulla da raggiungere o realizzare.”
Il viaggiare nel mandala interiore che è in noi, che è noi, tramite metodologie creatrici attinte dal cuore di tradizioni quali il buddismo tibetano ma altresì la mistica occidentale, le psicologie transpersonali e la forza evocatrice della parola poetica apre all’esperienza di un radicale rivolgimento, ad un’umile ma insostituibile partecipazione all’evoluzione della coscienza collettiva dell’umanità. Un salvifico e salutare – ancora la salus come inscindibilmente salute e salvezza dalla disgregazione delle forme e delle forze – cambiamento di paradigma nella concezione di noi stessi e della nostra relazione con l’universo. Sapersi non più un “io” separato dal cuore-spirito aperto allo spazio dell’unità vivente, un ego padrone di un corpo ridotto a protesi-oggetto dalla voracità del desiderio e volto al possesso di un mondo concepito e trasformato in materiale di consumo in(de)finito.
Ma, al contrario, in un rovesciamento totale di prospettiva, lasciar essere il corpo quale trasparenza, risonanza silente – senza pretese ed attese – agli elementi dell’esperienza che divengono così sensazione pura, nuda percezione di energia liberata riportata a dilatarsi nello spazio attraverso una mente in gioioso distacco. Tutto ricondotto all’Uno e nell’Uno vivente una danza di perenne nascita e dissoluzione, ricreazione incessante nella Gioia.