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Padelle: consigli per non farsi friggere

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Dalle padelle rivestite in teflon alle nuove pentole in ceramica nanotecnologica. Luci e ombre sul mito delle antiaderenti. Attenzione alle temperature e alla manutenzione.
Che la polenta si attaccasse al paiolo di rame era un fatto noto a tutti. E le nostre nonne lo accettavano di buon grado. Oggi però se la pentola si incrosta ci arrabbiamo molto più facilmente. Le padelle devono essere leggere e maneggevoli, la pulizia rapida e indolore. Sulle superfici levigate e antiaderenti i cibi possono essere cucinati con meno
grassi. Oggi tutti sanno che alle alte temperature gli oli si trasformano creando qualche problema in più. E chi non sa attendere ai fornelli potrebbe spingersi oltre il punto di
fumo. Un punto di non ritorno, che per l’olio d’oliva ad esempio è stabilito intorno ai 200°C. E se supera quella soglia il rischio si fa ancora più grosso. Ma andiamo con ordine.
Antiaderente, dalla padella alla brace
Dagli anni cinquanta in poi ha cominciato a diffondersi nelle cucine di tutto il mondo la padella rivestita in politetrafluoroetilene (PTFE), meglio conosciuto come teflon. La materia di base rimane nella maggior parte dei casi l’alluminio, a cui si aggiunge uno strato esterno di teflon, che ha un coefficiente di attrito molto basso, buona antiaderenza e non reagisce con altre sostanze. Alcuni recenti studi ci assicurano che per la sua inerzia chimica, trattandosi di una materia inerte, in caso di ingestione il teflon non è in grado di danneggiarci. Ma se si superano i 250 °C, allora siamo davvero fritti. Lo strato di teflon, che sia graffiato o meno, comincia a decomporsi e può rilasciare fumi di acido perfluorottanoico (PFOA), che se inalato diventa molto pericoloso e che come prima forma di saluto ci regala i sintomi dell’influenza. Uno studio del 2006 dell’Epa, l’Ente americano per la Protezione dell’Ambiente, ha mostrato gli effetti cancerogeni del PFOA, ponendo il divieto di utilizzo negli Usa dal 2015. Pericolosità confermata da un più  recente studio britannico1, il quale evidenzia il rischio di sviluppare tumori alla tiroide. Gli studi effettuati in Italia dal Cnr attestano che può liberarsi a temperature superiori ai
260°C, insieme anche al tetrafluoroetilene (EFTE), un’altra sostanza classificata come cancerogena. È vero, questa non è una temperatura di normale utilizzo, ma viene raggiunta facilmente se ci dimentichiamo la padella sul fuoco o se la usiamo preriscaldandola a mo’ di bistecchiera. Il teflon è insidioso, soprattutto sul piano ambientale. In fase di lavorazione vengono liberati fumi di PFOA che il Cnr, purtroppo per noi, ha già rinvenuto in gran quantità nei corsi d’acqua del Tanaro e del Po.
L’alluminio anodizzato
Se l’alluminio nudo è il materiale più usato nei ristoranti un motivo ci sarà. Duttile, leggero, ha una buona conducibilità termica e prezzi contenuti. Il problema però è che si sciupa facilmente e a contatto con alcuni cibi acidi può cedere sostanze nocive per l’organismo. Per questo motivo già da qualche anno si è diffuso l’alluminio anodizzato, che mediante un processo elettrochimico forma uno strato protettivo di ossido di alluminio. Il risultato è una protezione dalla corrosione e un miglioramento della superficie che diventa più dura, refrattaria al calore e difficilmente attaccabile dagli agenti chimici. Trattandosi però di un materiale ancora poroso, si graffia facilmente e si satura di sporcizia, compromettendo la cottura di cibi sani. La nanotecnologia giapponese GHA, brevettata in europa da un’azienda medio-piccola del bolognese, migliora ulteriormente le proprietà dell’alluminio, che durante l’anodizzazione viene sigillato mediante ioni di argento. Le padelle risultano rivestite di una «metalceramica», molto più dura e inscalfibile, che addirittura inibisce la proliferazione batterica e, secondo i test effettuati dall’azienda, non rilascia nessuna sostanza nociva, né in cottura, né a contatto con cibi di ogni tipo.
Articolo tratto dal mensile Terra Nuova di Marzo 2011.

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