Terra Nuova ha pubblicato il libro «
Biocarburanti fai-da-te» di Roy Virgilio, abbiamo deciso quindi di intervistare Albert Bates, uno dei membri più noti della comunità statunitense The farm (vedi «
The farm: trent’anni d’utopia») da sempre attivo sui temi dell’energia rinnovabile e studioso di quella che oramai viene chiamata l’era del post-petrolio.
A lui abbiamo rivolto alcune domande riguardanti l’impatto ambientale dei biocarburanti, il rischio di competizione tra produzioni alimentari e colture energetiche e soprattutto l’attività di «Veggy», la cooperativa che all’interno della comunità produce biocarburanti e insegna ad effettuare modifiche sui veicoli in circolazione per poter utilizzare come carburante l’olio esausto dei ristoranti.
Nel libro di Roy Virgilio sono illustrati i diversi metodi, utilizzabili anche a livello domestico, per ottenere carburanti da piante, prodotti o scarti vegetali. Quali materie prime utilizza la vostra cooperativa per produrre biodiesel?
Noi usiamo esclusivamente oli di scarto o esausti ritirati da ristoranti e mense pubbliche per produrre quello che chiamiamo «Veggy diesel» che sta per «biodiesel vegetariano». La materia prima che utilizziamo è olio di oliva, di girasole e di colza che poi vengono mescolati in percentuali che sono sempre diverse, ma questo non fa nessuna differenza per quanto riguarda poi il risultato finale. I ristoranti smaltiscono regolarmente grandi quantità di questi oli utilizzati per friggere patate, pesce o pollo e in genere pagano delle ditte specializzate per il loro smaltimento. Noi glielo ritiriamo gratis, lo filtriamo e quindi lo raffiniamo trasformandolo in combustibile.
Che processo utilizzate per trasformare l’olio esausto dei ristoranti in biodiesel?
Il processo è identico a quello indicato nel libro per l’autoproduzione casalinga, solo che lo realizziamo su scala più ampia. Dopo averlo raccolto dai ristoranti, l’olio viene raffinato in modo da eliminare gli eventuali residui di acqua e cibo. A questo scopo noi utilizziamo un contenitore in cui, dopo aver riscaldato l’olio, immergiamo una bobina elettrica. L’elettricità attraversa l’olio e fa venire a galla i residui di patate, pollo o pesce presenti che poi vengono filtrati con più facilità. Il processo dura poche ore, in generale per un barile (circa 227 litri, ndr) occorre un giorno. Tutto questo viene svolto dai soci di Veggy diesel: c’è chi va a raccogliere l’olio nei ristoranti, chi si occupa di filtrarlo e chi poi lo distribuisce.
Il libro di Roy Virgilio illustra in dettaglio le modifiche e gli accorgimenti necessari per alimentare una normale auto con biodiesel oppure con alcol etilico. Voi quali modifiche suggerite a coloro che intendono utilizzare biocombustibili?
Le modifiche sono più o meno le stesse di quelle riportate nel libro, l’aspetto innovativo della nostra cooperativa è che non si limita a produrre biodiesel, ma grazie a dei laboratori che organizziamo periodicamente, insegniamo a chi è interessato ad effettuare le modifiche necessarie. Non è difficile, sono sufficienti quattro ore di lavoro e poche centinaia di dollari.
Esistono pareri diversi sulla validità ecologica dei biocarburanti, lei cosa ne pensa?
I biocarburanti in generale e il biodiesel in particolare possono presentare un impatto ambientale molto pesante o al contrario essere molto validi dal punto di vista ecologico, tutto dipende da come vengono prodotti. Se per esempio si produce biodiesel secondo il processo convenzionale, utilizzando metanolo, sostanza fortemente tossica per l’uomo e l’ambiente, quello che si ottiene è sicuramente un prodotto nocivo. È dunque importante distinguere il biodiesel convenzionale prodotto con procedimenti industriali, partendo da materie prime fossili come il carbone, da quello che si ottiene da materie prime rinnovabili come quelle d’origine vegetale, senza fare uso di prodotti chimici pericolosi e tossici. In questo secondo caso si tratta di un carburante che oltre a non essere tossico presenta un bilancio energetico positivo.
Tra le motivazioni addotte dai detrattori dei biocarburanti c’è il ventilato rischio della competizione tra le colture alimentari e quelle destinate alla produzione di energia. Lei pensa che si tratti di un rischio reale?
La competizione per l’uso del suolo tra colture alimentari e colture per la produzione di energia è una questione seria, non solo dal punto di vista ambientale ma anche etico. C’è anche un altro fattore di estrema importanza: le piante svolgono un ruolo fondamentale nel processo di fissazione del carbonio, liberando ossigeno. Sappiamo tutti che uno dei modi per ridurre l’elevato contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera, causa del riscaldamento globale, è la piantagione di alberi, la ricostruzione delle foreste; da questo punto di vista quindi la competizione tra i diversi utilizzi del suolo è triplice: cibo, biocarburante e fissazione del carbonio. In conclusione, per capire se un biocarburante è sostenibile o meno bisogna conoscere le materie prime d’origine e il processo produttivo utilizzato perché ciò ha rilevanti implicazioni etiche e ambientali. Per essere sostenibile, un biocarburante dev’essere ottenuto da materiali di scarto dell’industria alimentare e inoltre bisogna avere la garanzia che provenga da colture che fissano il carbonio presente in atmosfera o quanto meno che assicurano un bilancio positivo o nullo fra il carbonio fissato e quello liberato.
È una sfida interessante: in Brasile, per esempio, la canna da zucchero e altre colture energetiche vengono coltivate secondo una successione in grado di arricchire il terreno invece di impoverirlo. Dopo il raccolto, vengono interrati i residui colturali e il terreno viene lasciato a riposo per sette anni con piante che lo arricchiscono. Dopo questo intervallo, il terreno viene nuovamente utilizzato per altre colture. Un’altra possibilità è la policoltura: nella monocoltura, il suolo intorno ad ogni pianta rimane nudo e le radiazioni solari che cadono su quella parte di terreno rimangono inutilizzate; ma non tutte le piante hanno bisogno di insolazione piena, alcune specie preferiscono un’alternanza di sole ed ombra o la piena ombra. La policoltura, o consociazione, consiste nel coltivare insieme specie vegetali di taglia e con esigenze di illuminazione diverse, in modo da sfruttare a pieno le radiazioni solari in tutte le loro sfumature e quindi ottenere un’efficienza energetica maggiore rispetto alla monocoltura tradizionale. Un altro esempio può venire dall’utilizzo di particolari piante come per esempio il mesquite (Prosopis sp.), una leguminosa molto comune nel deserto tra Messico e Stati Uniti, le cui radici sono in grado di cercare l’acqua fino ad una profondità di 50 metri. I suoi frutti non sono edibili, ma da essi si estrae un olio, utilizzabile come combustibile. Inoltre la pianta presenta rami spinosi che ogni anno si seccano e che se raccolti possono essere utilizzati per alimentare le distillerie, dove si estrae l’olio dai frutti. In questo modo il cerchio si completa e l’utilizzo della pianta raggiunge il massimo dell’efficienza. Il mesquite produce ogni anno circa 5000 litri d’olio per ettaro, ma non è tutto. Al mesquite si potrebbero consociare almeno altre due specie utili sia a scopo alimentare che per produrre carburante, incrementando così la produzione unitaria per ettaro. Oltre al bilancio ambientale complessivo, va poi considerata la parte di carbonio sottratta all’atmosfera da colture prevalentemente perenni che fissano il carbonio, arricchendo il terreno.
Vuol dire che il biodiesel non è né etico né sostenibile in sé, ma dipende da come viene prodotto e distribuito?
Sì, i biocarburanti diventano una soluzione valida dal punto di vista etico ed ecologico solo se il processo di produzione e distribuzione va a coinvolgere gli agricoltori della zona, utilizza materie prime del luogo, viene impiegato a livello locale, a cominciare dai trattori degli stessi agricoltori che lo hanno prodotto.
Per il momento in Italia l’autoproduzione di carburanti e il loro impiego sono ostacolati dalla tassazione che grava su tutti i combustibili, qualunque sia la loro origine. È lo stesso anche negli Usa?
Negli Usa, e in particolare nel Tennesee, siamo più fortunati, viviamo in uno Stato poco burocratico, la nostra è un’area relativamente franca dal punto di vista delle imposizioni fiscali. In altri paesi, come quelli europei, vi sono più restrizioni. Ma la sfida è proprio questa: fare pressione per ottenere maggiori libertà per raggiungere l’indipendenza dalle fonti fossili, un ambiente più pulito e minori emissioni di carbonio, in modo da promuovere filiere locali di produzione di olio vegetale combustibile. In realtà, si tratta di una vecchia idea. Già Henry Ford sosteneva la necessità che ogni agricoltore avesse un piccolo distributore di biodiesel autoprodotto con la possibilità di venderlo direttamente, come si fa per qualsiasi prodotto agricolo. Rockfeller invece voleva che la distribuzione dei carburanti fosse gestita da catene di distributori legati alle grandi compagnie petrolifere. Quest’ultimo riuscì a fare passare l’idea del proibizionismo non solo per l’alcol, ma anche per i biocarburanti e quando finalmente l’opinione pubblica si rese conto della scarsa efficacia delle leggi contro la produzione e il consumo dell’alcol, gli agricoltori erano ormai diventati «dipendenti» dai prodotti petroliferi. I milioni di dollari che Rockfeller aveva speso per sostenere i gruppi cattolici fondamentalisti e far approvare le leggi proibizioniste si rivelarono un buon investimento: in pochi anni tutti furono costretti a rifornirsi presso i distributori autorizzati, molti dei quali, guarda caso, acquistavano gasolio e benzina dalle raffinerie di quello che sarebbe diventato, grazie a questo astuto giochetto, uno dei più grandi miliardari americani della storia.
Quali saranno i carburanti dell’era post-petrolifera?
Nelle migliori delle ipotesi si utilizzerà una grande varietà di carburanti. Come oggi accade per alcuni prodotti tipici regionali quali salumi, formaggi, miele e vino, mi auguro che in futuro sarà possibile acquistare biocarburanati prodotti con materie prime locali da piccole cooperative di agricoltori. A questo scopo, si potrebbe utilizzare lo stesso modello applicato nei paesi di lingua anglosassone per sostenere i piccoli agricoltori. So che ne avete parlato più volte anche su queste pagine (vedi «Adotta un orto» su Aam Terra Nuova n. 204, marzo 2006, ndr): da una parte abbiamo gli agricoltori che producono frutta e ortaggi e dall’altra un gruppo organizzato di consumatori che in cambio di una quota fissa mensile possono ritirare una certa quantità di prodotti dell’orto. È un buon accordo per tutti: l’agricoltore è sicuro perché può contare su un’entrata fissa mensile, mentre il consumatore ha assicurata ogni settimana una cassetta di prodotti biologici, freschi, locali e a buon prezzo. Questo stesso modello potrebbe essere applicato ai biocarburanti: un gruppo di consumatori si impegna a versare a un gruppo di agricoltori locali una quota fissa mensile per ottenere in cambio una certa quantità di biocarburante e sostenere il progetto che permetta di rendere efficiente tutta la filiera.
Dunque vale la pena autoprodursi il proprio carburante, almeno fino a quando non sarà possibile acquistarlo da un distributore?
Sì, da questo punto di vista il libro di Roy Virgilio è molto utile, ma resta comunque una provocazione per stimolare i nostri politici ad attivare soluzioni in grado di liberarci dalla dipendenza dal petrolio. Il messaggio che mi preme lanciare è che l’unico modo per evitare che dal monopolio del petrolio si passi al monopolio dei biocarburanti è quello di promuovere l’impiego di sottoprodotti dell’industria alimentare come materia prima e decentrarne la produzione e la distribuzione. Se questo non avverrà, il rischio di trasformare la produzione di biocarburanti in una nuova minaccia per il pianeta è molto reale.
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