Il continuo fronteggiare le emergenze, ripagando i danni che frane e alluvioni causano sul territorio di un’Italia vulnerabile, provoca costi insostenibili e dispersione delle risorse da destinare alla prevenzione.
Italia vulnerabile: Legambiente stila le dieci regole per la salvaguardia del territorio e della popolazione.
Sono circa 6 milioni gli italiani che abitano nei 29.500 chilometri quadrati del territorio italiano considerati a elevato rischio idrogeologico. Lo evidenza il Rapporto sullo stato del territorio italiano realizzato dal centro studi del Consiglio nazionale dei geologi in collaborazione con il Cresme (vedi foto “Carta delle aree ad alta criticità idrogeologica” allegata in fondo all’articolo).
Un milione e 260 mila edifici sono a rischio frane e alluvioni, oltre 6 mila sono scuole, 531 ospedali. Tra le regioni, la maglia nera spetta alla Campania, dove oltre 5,3 milioni di persone vivono in aree a elevato rischio sismico. Seguono la Sicilia (4,6 milioni), la Toscana (2,7 milioni), la Calabria (2 milioni), il Lazio (1,7 milioni) e poi Marche e Emilia-Romagna (1,4 milioni circa).
I comuni potenzialmente interessati da un alto rischio sismico sono 725, con 3 milioni di abitanti, e quelli a medio rischio 2344, con 21,2 milioni di abitanti. Lo studio ricorda anche che «il 60% degli 11,6 milioni di edifici a prevalente uso residenziale è stato realizzato prima del 1971, mentre l’introduzione della legge antisismica per le costruzioni in Italia è del 1974». (vedi foto “Comuni a rischio idrogeologico in Italia” allegata in fondo all’articolo).
Dal 1956 a oggi la superficie impermeabilizzata da cemento e asfalto in Italia è aumentata del 500% e, dal dopoguerra fino al 2008, sono stati spesi 213 miliardi di euro per il dissesto idrogeologico. Il territorio ha una vulnerabilità elevatissima, si inseguono le emergenze senza raggiungere un livello accettabile di sicurezza.
Sulla base delle stime effettuate dal Ministero dell’ambiente, attraverso i Piani di assetto idrogeologico (Pai) redatti dalle autorità di bacino, occorrerebbero
ora circa 40 miliardi per mettere in sicurezza l’intero territorio. A puntare il dito sull’eccessivo cemento che invade fiumi, ruscelli e fiumare, oltre alle aree a ridosso di versanti franosi e instabili, è il rapporto di Legambiente Ecosistema Rischio 20112, realizzato con la collaborazione del dipartimento della Protezione civile, che ha monitorato le attività di prevenzione realizzate da oltre 1500 fra le 6633 amministrazioni comunali italiane classificate a rischio idrogeologico
potenziale più elevato.
Ben 1121 tra i comuni intervistati (l’85%) rilevano la presenza sul proprio territorio di abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in zone a rischio frana. Rilevanti le percentuali dei comuni che dicono di avere in zone a rischio fabbricati industriali (56%), interi quartieri (31%), strutture pubbliche sensibili
come scuole e ospedali (20%) e strutture ricettive turistiche o commerciali (26%). Sono ancora poche le amministrazioni (29%) che affermano di essere intervenute in maniera positiva nella mitigazione del rischio idrogeologico.
«Il continuo fronteggiare le emergenze, ripagando i danni che frane e alluvioni causano sul territorio, sta generando costi insostenibili e una dispersione delle risorse che dovrebbero invece essere destinate alla prevenzione in un’Italia sempre più vulnerabile» fa sapere Legambiente. «Per arginare la vulnerabilità dei territori bisognerebbe adeguare le politiche regionali per la tutela e la prevenzione del rischio rivedendo le mappe, pianificando la lotta agli illeciti ambientali e demolendo gli immobili abusivi, oltre a delocalizzare rapidamente i beni esposti al pericolo di frane e alluvioni.
Bisogna uscire dalla logica che la prevenzione del rischio idrogeologico debba passare obbligatoriamente attraverso la sola attuazione di interventi strutturali e opere di messa in sicurezza. Ad esempio, è ancora oggi opinione largamente diffusa che la tutela della naturalità dei corsi d’acqua sia un obiettivo auspicabile in sé, ma purtroppo in conflitto con quello della sicurezza idraulica. Una convinzione profondamente errata. Spesso si pianificano interventi per ottenere una effettiva riduzione del rischio locale, senza rendersi conto che il più delle volte il rischio non viene eliminato, ma solo trasferito a valle.
Così, dopo ogni intervento, i centri abitati a valle, trovandosi esposti a un rischio accresciuto, corrono ai ripari con interventi analoghi, in un circolo vizioso che dissipa risorse e aumenta il rischio complessivo e i danni». Ecco allora i dieci punti individuati da Legambiente per una politica territoriale di prevenzione, mitigazione e tutela.
Il decalogo della prevenzione in un’Italia vulnerabile:
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Investire nella messa in sicurezza del territorio.
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Delocalizzare i beni esposti a frane e alluvioni, se legali.
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Adeguare lo sviluppo territoriale alle mappe del rischio.
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Ridare spazio alla natura, ovvero restituire al territorio lo spazio necessario e ai corsi d’acqua le aree per permettere un’esondazione diffusa ma controllata.
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Torrenti e fiumare: sorvegliati speciali. Rivolgere particolare attenzione all’immenso reticolo di corsi d’acqua minori.
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Attuare una manutenzione ordinaria del territorio, che non sia però sinonimo di artificializzazione e squilibrio delle dinamiche naturali di un versante o di un corso d’acqua.
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Prevenzione degli incendi.
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Convivere con il rischio applicando sistemi di previsione delle piene e di allerta, e piani di protezione civile aggiornati, testati e conosciuti dalla popolazione, che deve essere coinvolta in esercitazioni.
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Lotta agli illeciti ambientali: captazioni abusive di acqua, estrazione illegale di inerti, abusivismo edilizio.
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Gestire le piogge in città.
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