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I nuovi angeli del fango

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Una nostra lettrice, volontaria in occasione delle ultime alluvioni, ci porta una drammatica, toccante testimonianza delle realtà colpite dalla furia del fango. Ecco la lettera di Giulia “I nuovi angeli del fango”.
Dal finestrino del treno mi scuote dal leggero sonno la vista di un paesaggio spettrale a soli quaranta minuti da casa mia. I campi arati sono adesso un’unica distesa di castano e lucido cemento. Acqua e Terra, elementi essenziali alla Vita, combinati insieme sono riusciti a devastare la valle dell’Ombrone. Scendo alla modesta stazione di Albinia, in cerca della sede della Misericordia, dove so che chiunque abbia un paio di stivali e di guanti può contribuire a rendere un po’ più dolce una Maremma ritornata amara.
Incontro un anzianotto intento a salire a bordo di un caravan e chiedo indicazioni. Senza neanche osservarmi bene mi lascia salire, sta andando nella stessa direzione. In coda per il passaggio a livello gli chiedo come sta, lui mi liquida in poche parole dicendo che ha perso due auto nuove, infatti il caravan è di un suo amico. A dodici giorni dall’alluvione, dice, se il Paese sembra in ordine, le campagne sono un disastro.
Appena scendo davanti alla Misericordia mi ringrazia, anche se è lui ad avermi dato un passaggio. Se oggi dovessi raffigurare l’idea di cittadinanza disegnerei la folla di gente che vedo adesso, diversi tipi di divise, api operose, un caos ordinato perché ognuno sa cosa fare ma soprattutto per chi. Incontro altri ragazzi, anche più giovani di me, volontari senza bandiera con tanta voglia di spalare fango, complice lo sciopero dei professori alle superiori. Il coordinatore della Misericordia ci raggruppa e ci fa salire sul loro pulmino alla volta dell’agriturismo Il Giardino, uno tra i più danneggiati dall’alluvione. Ci accoglie una donna sulla cinquantina, fisico asciutto, vestiti comodi, scalza, un sorriso incrinato.
La Natura e la sua furia mi sbatte in faccia una triste verità, mentre portiamo fuori dai mini residence decine e decine di mobili malconci gonfiati dall’acqua, biancheria e tende infangate: la maggior parte di ciò su cui contiamo non è nient’altro che «roba». La donna ci impartisce ordini con fare poco gentile, ma non è lei a parlare, piuttosto la rassegnazione nel toccar con mano i reali danni, passati i giorni caldi dell’alluvione, quando ancora sembrava di guardare immagini di luoghi o tempi lontani e ti addormentavi credendo di svegliarti al mattino che era solo un incubo. Io e un’altra ragazza laviamo le stoviglie infangate mentre un volontario dell’antincendio ci dice «Mi viene da piangere a me, e questa roba non è mia…». Osservo la donna dell’agriturismo, che immagino essere sempre stata una tosta per mandare avanti la baracca da sola, ora intenta a raccogliere in un sacco a parte le bottiglie di vetro, nei piccoli gesti ancora rispettosa della Natura, madre di parto e di voler matrigna.
Terminati i nostri compiti la donna si rilassa, ci chiede cosa facciamo, cosa studiamo, sentendosi come mai prima d’ora vicina a noi giovani, come noi senza un soldo e con un mare di strada da fare. Torniamo alla base, la mensa gratuita dei volontari ci sfama, un numerosissimo convivium, la partecipazione la più buona pietanza. Poco dopo siamo di nuovo al pezzo, stavolta dotati di pale forti e di tira-acqua; quando arriviamo al podere che ha richiesto rinforzi mi accorgo di non aver mai considerato la furia devastante del fango.
Una coppia di vecchi contadini, le loro mani cresciute e invecchiate assieme al terreno, meno avvezzi all’uomo che al resto del creato, ci guardano spaesati, senza sapere da dove farci cominciare. Troviamo i loro capanni degli attrezzi, il loro pollaio, la loro cantina, umili e sostenibili dimore, soffocate dal fango. Una solitaria allina, l’unica sopravvissuta, contrasta col cimitero della Roba, allestito davanti a noi: anni di vita passati leggeri, adesso bruni di terra e pesanti di acqua. I nostri tira-acqua spingono la melma, altre pale e altre carriole la trasportano via, in un altro cumulo, mentre altri scavano nuovi canali tra il fango ormai asciutto, per far scolare possibili nuove piogge. La mia compaesana, che conosco soltanto di vista, spinge forte il tira-acqua e il suo titolo di reginetta di carnevale non mi è mai sembrato più meritato.
La vecchia, col foulard a coprirle i capelli, un dipinto pastorale dei primi del ’900 di una donna nell’aia, porta le mani alla fronte, piangendo senza sapere perché, mentre le nostre autostrade, il nostro cemento, i nostri argini artificiali, le case abusive, il disboscamento, i campi nudi e abbandonati… loro lo sanno il perché.
Lettera di Giulia Brugnolini, Follonica (Gr), pubblicata nella rubrica TERRA NUOVA DEI LETTORI sul mensile Terra Nuova Gennaio 2013, disponibile anche come eBook.

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