Quello che mi chiedo spesso quando leggo un articolo, guardo un telegiornale o ascolto la radio è: «Che impatto ha avuto questa esperienza su di me e sugli altri? In che modo potrà arricchire e migliorare la mia vita e quella delle persone che insieme a me leggono, ascoltano o guardano? In quale misura essa si limita ad essere un consumo di informazione, paragonabile ad un Big Mac che fa ingrassare senza nutrire?»
Ho trovato una risposta a questi dubbi nel film The Take, un documentario appassionato sull’esperienza dei lavoratori argentini dopo il crollo economico del dicembre 2001. Scritto da Naomi Klein, autrice di No logo, con la regia del giornalista canadese Avi Lewis, The Take parla del nuovo movimento delle recovered companies (letteralmente «compagnie recuperate»). Dopo la crisi, l’Argentina è diventata un vero e proprio laboratorio di alternative: gli ex-dipendenti hanno occupato, rimettendole poi in sesto come cooperative, un gran numero di aziende fallite. Un fenomeno che oggi interessa oltre 200 aziende e 15.000 lavoratori.
Quello che più colpisce di questo film, tuttavia, è lo scopo dichiarato di creare un legame diretto tra i protagonisti del documentario e le realtà locali del luogo dove viene proiettato. Una scelta che ha richiesto anche un modo diverso di fare distribuzione.
«Non abbiamo bisogno di impossessarci dei mezzi di produzione, abbiamo bisogno di impossessarci dei mezzi di distribuzione!» afferma Naomi Klein, riassumendo perfettamente la sfida più difficile per l’informazione indipendente: quella di creare un ponte tra i lettori/spettatori e gli attori, tra il dire e il fare, tra l’idea e l’azione – per non correre il rischio più grande, quello di parlarsi addosso.
«La nostra intenzione» dice la Klein «è quella di mostrare alternative positive. Dopo la pubblicazione di No Logo, molte persone mi hanno chiesto: ‘Io voglio aiutare, cosa posso comprare?’. Se da una parte è bello che si possa comprare prodotti da cooperative dove i lavoratori non sono sfruttati, allo stesso tempo è preoccupante se davanti a questioni così complesse il primo impulso sia in termini di acquirenti, anziché pensare di intraprendere delle azioni dirette e creare delle situazioni di lavoro democratiche. In un certo senso anche questo è il sintomo della privatizzazione di tutto ciò che è pubblico. Non siamo più cittadini, ma solo consumatori».
«Penso che Michael Moore dovrebbe comprare una compagnia di distribuzione – aggiunge il regista Avi Lewis – e regalarla al mondo! Noi vogliamo certamente raggiungere un pubblico più vasto, sia con i canali tradizionali come i festival del cinema, ma anche utilizzando reti di distribuzione più commerciali. Tuttavia, anche quando usiamo i canali convenzionali, cerchiamo sempre di creare un legame diretto con la realtà sociale del luogo».
L’idea quindi è di lavorare su due livelli, mostrando il film nei luoghi più conosciuti e allo stesso tempo condividere questi luoghi con la comunità locale.
Questo è stato fatto in Canada, Sudafrica, Australia e ora anche in Italia.
Le conseguenze sono subito visibili e concrete: le persone che hanno visto The Take hanno formato un network internazionale per appoggiare i lavoratori in Argentina. Così, è successo che alcune settimane fa, quando una delle aziende occupate di cui si parla nel film è stata minacciata di sfratto, è basta ta una e-mail per raccogliere 20mila firme di sostegno.
Questo è un esempio concreto di come le associazioni di base possono promuovere un film, e allo stesso tempo di come un film può aiutare la nascita di una rete di attivisti.
Negli ultimi anni abbiamo visto una rinascita del documentario cinematografico: lo testimoniano il successo di Fahrenheit 9/11, The Corporation, The Control Room. L’incapacità dei mass-media di soddisfare la sete di verità di un numero sempre crescente di persone in tutto il mondo, ha creato un forte desiderio di cercare nuove vie di comunicazione. Soprattutto, sembra che la gente voglia ritrovarsi, usando i film come mezzo organizzativo.
«Stiamo vedendo degli esempi molto significativi in reti di distribuzione alternativa negli Usa» racconta Lewis, «proprio lì dove i mass-media sono i peggiori del mondo in un contesto di democrazia. A causa di questa censura corporativa, sono nate iniziative per facilitare la diffusione di libri e film altrimenti introvabili. Un esempio è il movimento Move on («Vai avanti»), legato al partito democratico, che ha deciso di dare priorità alla diffusione di libri e film, creando una rete di distribuzione indipendente. Un altro aspetto interessante è la consapevolezza che libri e film, per essere dei mezzi politici efficaci, debbono essere fruiti in gruppo, quindi non da soli, ma insieme a colleghi, amici, parenti e vicini di casa, in modo da potersi confrontare su quello che si può fare per cambiare le cose a livello locale, in modo concreto».
Un esempio molto interessante a riguardo è il film Unprecedented di Robert Greenwald, incentrato sulla controversa (prima) elezione di G. W. Bush. Il film è ben fatto, ma al di là dei contenuti, la cosa più interessante del film è la soluzione innovativa adottata per la distribuzione.
Innanzitutto, il film è stato venduto in Dvd, ad un prezzo molto contenuto (8 dollari) prima di uscire nelle sale. Successivamente è stata organizzata una proiezione simultanea, spesso accompagnata da un dibattito, in 600 tra abitazioni private e bar. In questo modo sono state vendute quasi 100mila copie di Dvd, tutte on-line, senza passare da negozi. Quando i gestori delle sale si sono resi conto del successo del film, sono stati loro a richiederlo per proiettarlo – esattamente il contrario di quello che accade di solito.
In Italia, la casa distributrice di The Take è Fandango, che da tempo punta sul cinema controcorrente.
Per il documentario di Lewis, ha condotto una campagna pubblicitaria diversa dal solito, organizzando un’anteprima con il Global Project di Milano. «L’idea è quella di collaborare con i Global Project delle principali città» ci dice Sonila Demi, assistente in distribuzione. «Questo documentario è fatto soprattutto per i lavoratori precari e quindi mi sembra naturale che ci sia un rapporto di collaborazione. Stiamo cercando inoltre di prendere contatto con molte associazioni analoghe. Purtroppo la maggior parte della gente va ancora a vedere altri tipi di film e da una parte è difficile entrare nelle multisale, dall’altra in molti luoghi «alternativi» non ci sono le condizioni necessarie per proiettare un film in 35mm. Tuttavia, c’è sicuramente una crescita di interesse in questo campo ed è questo che ci incoraggia ad andare avanti con entusiasmo».
La proposta che viene da film e documentari come The Take è quella di trasformarsi finalmente in fruitori attivi e allora perché non prendere contatto con i pochi cinema indipendenti rimasti, fare presente alla multisala di zona che siamo stanchi di vedere solo colossal, contattare associazioni che potrebbero organizzare una proiezione e perché no, magari anche includere nei gruppi di acquisto solidali una proiezione collettiva? Dopotutto, basta un cinema e un numero sufficiente di persone interessate per coprire le spese…