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Ilva: il Riesame conferma il sequestro

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Il Tribunale del Riesame ha confermato il sequestro degli impianti Ilva di Taranto vincolandolo però alla messa a norma e non alla chiusura degli impianti. Domiciliari confermati per Nicola Riva, Emilio Riva e Luigi Capogrosso.
Il Tribunale del Riesame ha confermato il sequestro degli impianti Ilva di Taranto vincolandolo però alla messa a norma e non alla chiusura degli impianti. Domiciliari confermati per Nicola Riva, Emilio Riva e Luigi Capogrosso. Il tribunale ha disposto che “i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti”, confermando nel resto il decreto impugnato. I giudici si sono riservati di depositare le motivazioni dell’ordinanza. I termini non perentori per le motivazioni sono di cinque giorni.
Il “male” si trascina da oltre trent’anni. La prima sentenza di condanna dell’Ilva per lo spargimento di polveri minerali sulla città è del 1982. La emise un pretore di Taranto, Franco Sebastio, ora a capo della Procura ionica. Ma i 32 anni trascorsi da quella prima sentenza sino al sequestro degli impianti dell’area a caldo del Siderurgico, il 26 luglio scorso, sono costellati da pronunciamenti e disposizioni della magistratura che lanciano allarmi o puniscono i presunti responsabili dell’inquinamento di Taranto. La stessa inchiesta che ha portato al sequestro, senza facoltà d’uso, degli impianti e all’arresto di una parte dei vertici Ilva, indagine nata alla fine del 2009, riunisce tre procedimenti penali che si sono incrociati negli ultimi anni:quello sull’abbattimento di animali risultati contaminati dalla diossina, un altro contenente relazioni dell’Arpa e alcuni esposti, e infine un terzo basato sulle denunce di oltre un
centinaio di famiglie del rione Tamburi, a ridosso del Siderurgico, che lamentavano problemi di salute e il danneggiamento delle loro case per colpa delle polveri minerali che si depositavano su muri e balconi. Ma già in una sentenza del 19 gennaio 1998 la Corte di Cassazione scriveva che è stata raggiunta “la prova certa del nesso di causalità materiale tra le modalit. di svolgimento dell’attività produttiva e il fenomeno dello spolverio”, nonchè “del consapevole mancato apprestamento di misure effettivamente idonee ad evitare la situazione di pericolo per l’incolumità pubblica”. In quel pronunciamento l’Ilva era stata citata in giudizio dal titolare di una serra di fiori situata a 500 metri dal Siderurgico e danneggiata irrimediabilmente dalla quantità eccessiva di polveri minerali fuoriuscite dallo stabilimento siderurgico. Il 7 dicembre 2000, in una lettera inviata a governo, prefetto, Regione Puglia, presidente della Provincia e sindaco di Taranto, la Procura ionica lanci. un allarme indicando che dalle inchieste in corso emergeva “una grave situazione di inquinamento atmosferico” in città e nei territori limitrofi. La Procura sottolineò in quella lettera un drammatico paradosso: le polveri minerali rilevate nel quartiere Tamburi di Taranto “risultano maggiori di quelle rilevate all’interno di una zona industriale quale quella del parco materiali del
cementificio Cementir”; dunque, un quartiere cittadino risultava più inquinato di un grande sito industriale. Nella lettera si aggiungeva che “l’esigenza di tutelare posti di lavoro in una terra che vive ancora drammaticamente fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione è ben nota a chi scrive che se
ne fa anche carico”, ma si ricordava anche ai destinatari che “la tutela dei posti di lavoro non può prescindere dal rispetto della salute degli operai e degli abitanti della città di Taranto e dei comuni limitrofi e dell’ambiente”. E nel 2007 l’allora giudice monocratico del tribunale, Martino Rosati, condannò, tra gli altri, Emilio Riva a tre anni di reclusione e l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso a due anni e otto mesi, per aver omesso di
adottare le misure idonee ad evitare che le batterie delle cokerie, ormai obsolete, disperdessero nei luoghi di lavoro e nelle aree circostanti fumi, gas, vapori e polveri di lavorazione in modo da “prevenire la possibilità di disastri, infortuni e malattie conseguenziali”. Le batterie 3-4-5-6 delle cokerie erano state sequestrate nel 2001 su disposizione della magistratura, alcune di queste vennero completamente ricostruite. Ma il primo allarme era stato lanciato nel 1996, un anno dopo l’avvento del gruppo Riva al Siderurgico: il dipartimento di prevenzione della Asl Ta/1 scriveva, dopo un’ispezione nelle cokerie, che c’era “rilevante presenza di idrocarburi policiclici aromatici, sostanze cancerogene derivanti dai processi di distillazione del carbon fossile”. All’epoca, precisava la Asl, erano 629 i lavoratori, tra dipendenti Ilva e delle ditte d’appalto, ad essere “particolarmente esposti” e quindi a rischiare di contrarre malattie gravi.
Fonte: Ansa

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