Ilva: il Riesame conferma il sequestro
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centinaio di famiglie del rione Tamburi, a ridosso del Siderurgico, che lamentavano problemi di salute e il danneggiamento delle loro case per colpa delle polveri minerali che si depositavano su muri e balconi. Ma già in una sentenza del 19 gennaio 1998 la Corte di Cassazione scriveva che è stata raggiunta “la prova certa del nesso di causalità materiale tra le modalit. di svolgimento dell’attività produttiva e il fenomeno dello spolverio”, nonchè “del consapevole mancato apprestamento di misure effettivamente idonee ad evitare la situazione di pericolo per l’incolumità pubblica”. In quel pronunciamento l’Ilva era stata citata in giudizio dal titolare di una serra di fiori situata a 500 metri dal Siderurgico e danneggiata irrimediabilmente dalla quantità eccessiva di polveri minerali fuoriuscite dallo stabilimento siderurgico. Il 7 dicembre 2000, in una lettera inviata a governo, prefetto, Regione Puglia, presidente della Provincia e sindaco di Taranto, la Procura ionica lanci. un allarme indicando che dalle inchieste in corso emergeva “una grave situazione di inquinamento atmosferico” in città e nei territori limitrofi. La Procura sottolineò in quella lettera un drammatico paradosso: le polveri minerali rilevate nel quartiere Tamburi di Taranto “risultano maggiori di quelle rilevate all’interno di una zona industriale quale quella del parco materiali del
cementificio Cementir”; dunque, un quartiere cittadino risultava più inquinato di un grande sito industriale. Nella lettera si aggiungeva che “l’esigenza di tutelare posti di lavoro in una terra che vive ancora drammaticamente fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione è ben nota a chi scrive che se
ne fa anche carico”, ma si ricordava anche ai destinatari che “la tutela dei posti di lavoro non può prescindere dal rispetto della salute degli operai e degli abitanti della città di Taranto e dei comuni limitrofi e dell’ambiente”. E nel 2007 l’allora giudice monocratico del tribunale, Martino Rosati, condannò, tra gli altri, Emilio Riva a tre anni di reclusione e l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso a due anni e otto mesi, per aver omesso di
adottare le misure idonee ad evitare che le batterie delle cokerie, ormai obsolete, disperdessero nei luoghi di lavoro e nelle aree circostanti fumi, gas, vapori e polveri di lavorazione in modo da “prevenire la possibilità di disastri, infortuni e malattie conseguenziali”. Le batterie 3-4-5-6 delle cokerie erano state sequestrate nel 2001 su disposizione della magistratura, alcune di queste vennero completamente ricostruite. Ma il primo allarme era stato lanciato nel 1996, un anno dopo l’avvento del gruppo Riva al Siderurgico: il dipartimento di prevenzione della Asl Ta/1 scriveva, dopo un’ispezione nelle cokerie, che c’era “rilevante presenza di idrocarburi policiclici aromatici, sostanze cancerogene derivanti dai processi di distillazione del carbon fossile”. All’epoca, precisava la Asl, erano 629 i lavoratori, tra dipendenti Ilva e delle ditte d’appalto, ad essere “particolarmente esposti” e quindi a rischiare di contrarre malattie gravi.