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Balene di casa nostra

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Molti non sanno che anche il nostro mare Mediterraneo ospita varie specie di balenottera comune, la cui esistenza però è messa costantemente in pericolo dalle attività dell’uomo. La ricerca può aiutare a proteggere questo animale straordinario.
Sentendo parlare di balene, il pensiero della maggior parte di noi va ai mari freddi del Canada e dell’Alaska o magari in Australia e in qualche altro luogo lontano mille miglia dall’Italia. I misteriosi cetacei sembrano non appartenere alla nostra vita, al nostro mare. Invece, come ancora molti stentano a credere, abitano anche nel Mediterraneo, dall’Adriatico al Mar Ligure, e numerose sono le specie che si possono incontrare. Fin dalle prime campagne condotte dai ricercatori dell’Istituto Tethys (Organizzazione no profit per lo studio e la tutela dell’ambiente marino) nel 1988, è emerso che l’area più ricca di balene e delfini è il Bacino Corso-Ligure-Provenzale. In questa parte di Mediterraneo, particolari correnti riportano in superficie dal fondo i nutrienti, che danno l’avvio ad una complessa catena alimentare al cui vertice ci sono i cetacei.

Un gigante dei nostri mari
Anche la gigantesca balenottera comune, l’animale più grande al mondo dopo l’ormai rara balenottera azzurra, torna ogni primavera in queste acque per mangiare e vi resta per tutta l’estate per poi, forse, spostarsi più a sud. Grazie all’analisi di campioni cutanei prelevati da Tethys da alcune balene mediterranee e poi confrontati con quelli di esemplari atlantici, è stato possibile accertare che esiste una diversità genetica tra le balenottere dei nostri mari e quelle dell’oceano. Questo significa che la nostra balenottera è endemica del Mediterraneo, dove presumibilmente trascorre tutta la sua vita.
Sulla base di questa «ricchezza» cetologica, e di una proposta presentata dall’Istituto Tethys nel 1990 (il Progetto Pelagos), Italia, Francia e Principato di Monaco hanno istituito nel 1999 il Santuario «Pelagos» dei Cetacei, che rappresenta la prima area marina protetta al mondo in acque internazionali. La sede sarà collocata a Genova e dovrebbe rappresentare il fulcro delle attività volte allo studio e alla conservazione dei cetacei nella zona protetta. Ad oggi, però, non esistono ancora forme di tutela operative per questi animali, che devono affrontare spesso pericoli e situazioni di stress che potrebbero causare seri danni alle popolazioni delle diverse specie.

Pericolo di estinzione
«Nelle acque di fronte a Sanremo – ha spiegato Sabina Airoldi, responsabile delle ricerche di Tethys nel Santuario – si trova una delle più alte concentrazioni di cetacei di tutto il Mediterraneo, tuttavia l’inquinamento acustico, il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, il traffico marittimo e il rischio di collisioni potrebbero avere gravi effetti sulla presenza di balene e delfini nel Mar Ligure». Ma anche in altre zone del Mediterraneo i cetacei non se la passano meglio.

La preoccupante riduzione del delfino comune in Mediterraneo, dove era abbondante fino a 30-50 anni fa, ha portato nel 2003 l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) a includere nella sua «Lista Rossa» la popolazione mediterranea, dichiarandola «in pericolo di estinzione». «Oggi – dice Giovanni Bearzi, Presidente dell’Istituto Tethys e docente di Tutela dei Cetacei all’Università di Venezia – questa specie ha ottenuto la massima protezione normativa possibile, ma è necessario che gli stati rivieraschi del Mediterraneo passino dalle parole ai fatti e si adoperino concretamente per la sua tutela».

Inquinamento acustico
Un altro fattore che minaccia seriamente la conservazione dei cetacei del Mediterraneo è l’inquinamento acustico, perché forti rumori causati, per esempio, dalle navi o dai lavori lungo la costa, possono mascherare i suoni prodotti dai cetacei per comunicare tra loro o per cacciare. Nei cetacei infatti il senso dell’udito è molto sviluppato ed essi vi si affidano per determinare le distanze delle prede e per orientarsi. Anche gli esperimenti militari (attualmente banditi nel Santuario) con esplosioni in mare e utilizzo di sonar a bassa frequenza (LFAS), sono molto pericolosi per i cetacei. In seguito a sperimentazioni con i LFAS sono stati registrati ripetuti spiaggiamenti di massa in tutto il mondo. In Mediterraneo, una delle principali cause di morte per delfini, capodogli, tartarughe e uccelli marini sono le spadare, lunghissime reti utilizzate per la pesca del pesce spada, nelle quali si impiglia un po’ tutto quello che passa in mezzo al mare. Malgrado queste dannosissime reti siano state bandite dall’Unione Europea sin dal 2002, i pescatori di alcune zone italiane continuano a usarle illegalmente.

Le collisioni con navi e traghetti rappresentano un pericolo soprattutto per i grandi cetacei come la balenottera e il capodoglio. «Durante l’ultima riunione organizzata da ACCOBAMS (Accordo per la Conservazione dei Cetacei del Mediterraneo, Mar Nero, e zone atlantiche contigue) e dal Ministero dell’Ambiente lo scorso 14 novembre a Monaco – ha spiegato Simone Panigada, vicepresidente di Tethys e membro del Comitato Scientifico di ACCOBAMS – è emerso che il problema collisioni è reale e che nel Mediterraneo l’80% di esse avvengono nel Santuario». Le minacce per i cetacei aumentano se si considera la contaminazione da sostanze chimiche immesse in mare dall’uomo. Il Mediterraneo è infatti uno dei mari più inquinati da sostanze tossiche come i policlorobifenili – i famigerati PCB. Alcune di queste sostanze si accumulano nei tessuti dei cetacei, con conseguenze dannose per il sistema riproduttivo e immunitario. Un piano adeguato per la tutela dei cetacei non potrà dunque non considerare tutti questi fattori.

Cosa può fare la ricerca
Solo una conoscenza approfondita dei cetacei può portare a pianificare adeguate misure normative che salvaguardino il futuro di questi animali. «La foto-identificazione – spiega Sabina Airoldi – è uno dei metodi di ricerca più usati e consente, grazie al riconoscimento dei singoli individui fotografati, di ottenere una stima dell’abbondanza delle popolazioni di cetacei sulla base del tasso di ri-avvistamento. Normalmente la parte anatomica che più si presta al riconoscimento individuale è la pinna dorsale, che costituisce una sorta di “impronta digitale” diversa da individuo a individuo». Esiste addirittura un database europeo (nato dal progetto Europhlukes) che conta oltre 50.000 immagini di cetacei foto-identificati in diverse aree, accessibile e consultabile via internet.
«Il comportamento dei cetacei – aggiunge la Airoldi – non è sempre facile da studiare, perché questi animali passano la maggior parte del tempo sott’acqua; pertanto è possibile solo farsi un’idea di quello che stanno facendo o di come reagiscono nei confronti di un potenziale fattore di stress – per esempio la presenza di un’imbarcazione – analizzando alcune caratteristiche del nuoto e della respirazione, come i tempi di immersione, la frequenza delle ventilazioni in superficie, la velocità e direzione del nuoto».

Anche l’acustica, cioè lo studio dei suoni prodotti dai cetacei, può dare numerose indicazioni sul loro comportamento. I suoni denominati «click» prodotti dai cetacei Odontoceti (in Mediterraneo tutti tranne la balenottera) servono di solito ad individuare le prede e ad orientarsi, mentre i fischi sono legati soprattutto alla socializzazione e alla comunicazione. I click dei capodogli sono intensi e molto caratteristici; attraverso l’uso di idrofoni e con software specifici, è possibile percepire la presenza l’animale sott’acqua e contare gli animali presenti in un dato tratto di mare anche senza vederli.

Strumentazioni sofisticate come i TDR (Time-Depth Recorder) vengono applicate sul corpo dei grandi cetacei con una ventosa che si stacca spontaneamente dopo qualche ora, e consentono di registrare i tempi di immersione, la velocità e la profondità raggiunta dai cetacei. Attraverso strumenti di questo tipo, l’Istituto Tethys ha registrato l’immersione più profonda che si conosca per una balenottera comune (474 m) e per un globicefalo (824 m) in Mediterraneo. I cetacei sono parte di delicati e complessi equilibri ecologici che comprendono molte altre specie marine. Questo, tra le altre cose, rende molto importante la loro salvaguardia, e ci si augura che il lavoro dei ricercatori possa rappresentare un fattore determinante per la loro tutela.

Articolo tratto dal numero arretrato di Terra Nuova Aprile 2006

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