Ex GKN: nuovi licenziamenti. Ma il Collettivo di fabbrica non si arrende
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Da oltre un anno senza stipendio, lo stabilimento venduto dalla proprietà all’insaputa di tutti e ora una nuova procedura di licenziamento collettivo: non c’è pace all’ex GKN di Campi Bisenzio. Ma il Collettivo non ha intenzione di arrendersi.
Da oltre un anno senza stipendio, lo stabilimento venduto dalla proprietà all’insaputa di tutti e ora una nuova procedura di licenziamento collettivo: non c’è pace all’ex GKN di Campi Bisenzio.
Ma il Collettivo di fabbrica ex Gkn, costituito dai lavoratori in assemblea permanente nello stabilimento, non hanno intenzione di arrendersi e continuano a far sentire la loro voce. Dopo l’iniziativa della campagna di azionariato popolare e la manifestazione del novembre scorso, rilanciano e criticano aspramente la condotta dell’azienda. Abbiamo intervistato la Rsu dell’ex GKN.
A che punto siete con la vostra lotta?
«Siamo davanti all’ennesimo paradosso di questa lunga vicenda. Un’azienda che continua a collezionare sentenze a suo sfavore, senza per questo fare quello che giudici diversi gli hanno imposto. Non paga gli stipendi da oltre un anno, non ha mai presentato il piano sociale previsto dalla legge 234 del 2021, né un piano industriale, mentre ha venduto lo stabilimento all’insaputa di tutti. A inizio anno ha avviato una nuova procedura di licenziamento collettivo. Dopo quasi quattro anni si torna al punto di partenza, alla stessa condizione del 9 luglio 2021. È legittimo chiedersi se questo non fosse il disegno fin dall’inizio».
Quali prospettive avete dopo l’iniziativa di azionariato popolare che peraltro ha riscosso grandissima attenzione?
«L’azionariato popolare non è finito. Anzi, annunceremo il raddoppio dell’obiettivo. L’unico progetto industriale mai presentato è quello della cooperativa di lavoratori, che ha già raccolto oltre un milione di prenotazioni di azioni popolari, grazie anche alla convergenza con i movimenti climatici e sindacali italiani ed europei. Parallelamente stanno andando avanti le verifiche tecniche da parte degli investitori istituzionali. La riconversione ecologica dello stabilimento è un’idea che ha basi solide, riconosciute anche da diverse università italiane che hanno vagliato il progetto. L’unica cosa che manca, a questo punto, è lo stabilimento in cui realizzare tutto questo. La legge regionale sui consorzi industriali, che permetterebbe l’acquisizione della fabbrica anche tramite esproprio, è stata approvata prima della fine dell’anno. Si tratta ora di fare il consorzio e mettere a posto l’unica casella che manca».
Quali i prossimi passi che farete?
«Il progetto industriale non può essere rimandato all’infinito. È maturo, ma se non viene messo in piedi rischia di marcire, a partire dai preventivi per l’acquisto dei macchinari che hanno una scadenza, così come molte altre previsioni contenute nel progetto. La verità è che siamo in ritardo di almeno due anni e che ogni giorno di più mette a rischio il progetto stesso. Continuiamo a lavorare sui tanti tavoli tecnici aperti, ma ora tutto dipende dalla volontà politica e istituzionale di chiudere questa partita in maniera dignitosa non solo per noi, ma per tutto il territorio. Così come continuiamo l’azione sindacale e legale per avere gli stipendi e tutte le spettanze alle quali abbiamo diritto. Parallelamente ci mobilitiamo attraverso la convergenza e la narrazione: spettacoli teatrali, libri, documentari e, dal 4 al 6 aprile, il terzo festival di letteratura working class. Il festival potrà essere un momento di festa o di rabbia, in base a come si svilupperà la vicenda. Sicuramente sarà un momento centrale di mobilitazione».
Avete avuto tante manifestazioni di solidarietà e sostegno da parte della società civile e anche di personaggi famosi. Quanto ha inciso e sta incidendo questo sull’evoluzione della situazione?
«Il mondo della cultura è stato fondamentale in questi quattro anni, non solo perché ci ha permesso di veicolare il nostro messaggio a tante più persone, uscendo anche dalle nostre bolle social, ma soprattutto perché la narrazione è fondamentale per abbattere il muro di gomma contro il quale rimbalzano le istanze delle classi subalterne. Gkn poteva essere la classica storia di una delocalizzazione che dopo poche settimane sparisce dai media e invece, grazie al contributo spontaneo di tanti personaggi della cultura, la storia di questa fabbrica continua ad appassionare e diventa, in qualche modo, la storia di tutti e tutte».
Avete fatto rete con altre realtà che vivono situazioni analoghe alla vostra?
«Questa è sempre stata una caratteristica del Collettivo di fabbrica. Ed è stato il motivo per cui, fin dalle prime ore dei licenziamenti del 9 luglio 2021, non siamo mai stati soli. Tra le realtà sindacali con cui abbiamo una convergenza più stretta, ci sono i lavoratori e le lavoratrici dei Sudd Cobas, che stanno lottando per lavorare otto ore per cinque giorni nell’indotto dei grandi marchi della moda. L’unica differenza tra noi e loro, è che nel nostro caso hanno delocalizzato la produzione, nel loro caso delocalizzano i diritti. Questo è il mondo del lavoro che ci aspetta, in una deriva che sembra non avere fine. Noi cerchiamo di invertire la rotta, nella nostra cooperativa i posti di lavoro dovranno avere lo stesso livello di diritti che avevano i nostri contratti prima del 9 luglio, frutto di ottanta anni di battaglie sindacali degli operai della Fiat di Firenze».
Un messaggio che volete lanciare a chi segue l’evoluzione della vostra situazione?
«Con la nostra vicenda viene completamente abolita la contrapposizione tra lotta per l’ambiente e lavoro. Questa contrapposizione non ha mai avuto ragione di essere. Noi siamo stati semplicemente costretti ad essere tutto: lotta per il lavoro, per l’ambiente, per la salvaguardia dei diritti, del territorio ecc. Non è stata una scelta, ma l’unica via di lotta possibile. La classe operaia che vuole resistere e vincere, per riconquistare diritti e salario, è costretta a occuparsi di tutto lo sviluppo della società. Gkn avrà vinto nel momento in cui quello che abbiamo fatto in questi quattro anni sarà diventato il metodo con cui si risponde a una delocalizzazione in questo paese. Anche se la nostra cooperativa non dovesse poi andare in porto, quello che lasciamo in eredità dovrà servire ad altri, che potranno così partire da un punto più avanzato. Abbiamo prodotto una vasta esperienza di pratiche e perfino di proposte legislative. Abbiamo riaffermato che, senza intervento pubblico, non vi è né lotta alle delocalizzazioni né transizione ecologica. E contemporaneamente abbiamo delineato il tipo di intervento pubblico che sarebbe necessario. La nostra legge antidelocalizzazioni non è stata accettata ma è una proposta ancora valida. Di fatto ciò che viene chiamato legge contro le delocalizzazioni (234/2021, cosiddetta Orlando-Todde) è un sottoprodotto della nostra proposta iniziale. Poi c’è la legge regionale sui consorzi industriali: punti fermi che lasciamo alle vertenze sindacali future. Infine c’è il festival di letteratura working class, uno degli strumenti di mobilitazione più temuto dal padrone, che vogliamo diventi un appuntamento fisso, a disposizione di tutte e tutti».
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