«Gli allevamenti intensivi hanno un impatto che va oltre l’aspetto economico e la sofferenza degli animali: si tratta dell’impatto ambientale, l’inquinamento, le massicce emissioni di ammoniaca e la formazione di polveri sottili nell’aria, così come del la scomparsa progressiva delle piccole aziende agricole schiacciate da quelle più grandi, vittime di un meccanismo che impoverisce il tessuto economico e sociale del nostro Paese»: la denuncia di Greenpeace.
«Per porre fine a questo circolo vizioso, è necessario un piano di riconversione verso pratiche agroecologiche» dice Greenpeace. «L’attuale sistema zootecnico intensivo si regge su ingenti finanziamenti pubblici: circa due terzi dei finanziamenti per l’agricoltura in Europa sono destinati al sistema degli allevamenti intensivi, mangimistica inclusa. I numeri inoltre parlano chiaro: l’80% dei finanziamenti europei destinati all’agricoltura italiana finisce nelle casse di una minoranza privilegiata (il 20% dei beneficiari). Questo sistema penalizza le piccole aziende e favorisce quelle più grandi: secondo i dati Eurostat, l’Italia ha perso oltre 320 mila aziende in poco più di 10 anni (tra il 2004 e il 2016), con un calo del 38% tra le “piccole” a fronte di un aumento del 21% delle aziende “molto grandi” e del 23% di quelle grandi. In un contesto di crisi economica, geopolitica ed ecologica che vede l’aumento dei prezzi delle materie prime e il calo del potere d’acquisto dei cittadini, i piccoli allevatori sono tra le categorie che pagano un prezzo molto alto perché il loro reddito, già esiguo, non fa che ridursi. È necessaria una riconversione del settore zootecnico che finanzi e promuova le aziende agricole di piccole dimensioni che adottano metodi agroecologici e non più il sistema dei grandi allevamenti intensivi».
«Dobbiamo creare le condizioni per un sistema produttivo che sia ripensato su piccola scala, con margini di guadagno più equi per i produttori e con politiche di sostegno ai prezzi che permettano a tutta la popolazione di accedere a cibi sani e di qualità – spiega l’associazione – Il grande numero di animali allevati in modo intensivo nel nostro Paese (più di 700 milioni in un anno) richiede un grande uso di risorse che invece potrebbero essere destinate al consumo umano diretto. Circa due terzi dei cereali commercializzati in Europa si trasformano in mangime1, e circa il 70% dei terreni agricoli europei sono destinati all’alimentazione animale, basata principalmente su coltivazioni come il mais che richiedono un grande uso di acqua, risorsa sempre più scarsa a causa della siccità alimentata dai cambiamenti climatici. Gli eventi estremi sempre più frequenti e la siccità ormai cronica che interessano anche il nostro Paese impongono la ricerca di una nuova efficienza alimentare».
«È tempo di prediligere produzioni a più basso consumo di risorse e favorire l’adozione di diete salutari e a minor contenuto di prodotti di origine animale, tenendo presente che il consumo medio di carne in Italia è superiore a quello consigliato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – prosegue Greenpeace – Inoltre ridurre il numero di animali allevati in modo intensivo permetterebbe di liberare le risorse per produrre cibo direttamente per le persone e di usare le risorse stesse in modo più efficiente: secondo stime della FAO e dell’OMS, un ettaro coltivato a cereali fornisce cinque volte più proteine di un ettaro destinato alla produzione di mangimi per l’allevamento da carne, mentre i legumi ne forniscono dieci volte di più».
Di seguito analisi e proposte di Greenpeace.
Gli impatti ambientali
Ammoniaca
Il settore zootecnico è quello che in assoluto emette la maggiore quantità di ammoniaca, a causa delle grandi quantità di reflui zootecnici prodotti, ricchi di questo inquinante: oltre ⅔ delle emissioni nazionali. Una percentuale che non ha visto una riduzione consistente negli ultimi 15 anni, mentre altri settori hanno dimezzato il proprio contributo nello stesso lasso di tempo.
Azoto e nitrati
Nelle deiezioni animali sono contenute anche grandi quantità di composti azotati.Attraverso la distribuzione degli effluenti zootecnici (liquami, letame, ecc.) come fertilizzante, i composti azotati si trasferiscono sui terreni agricoli e nell’ambiente. Nelle aree ad alta densità di allevamenti, l’accumulo di azoto può superare facilmente la capacità di assorbimento dei terreni; inoltre i composti azotati – in particolare i nitrati, altamente solubili – si trasferiscono dal suolo alle acque superficiali e alle falde, compromettendone la qualità.
L’eccessivo carico di azoto, insieme alle carenze nel monitoraggio delle acque e nell’adozione di misure per contrastare l’inquinamento da nitrati, sono tra le principali motivazioni per cui l’Italia è sotto procedura di infrazione (INFR 2018 – 2249)2, da parte della Commissione europea per il mancato adeguamento alla Direttiva Nitrati.
Gli impatti sulla salute umana
L’ammoniaca liberata in atmosfera dagli allevamenti intensivi si combina con alcune componenti (ossidi di azoto e di zolfo) generando le polveri fini, molto pericolose per la salute umana in particolare in caso di esposizione cronica prolungata.
In Italia gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione del particolato fine, essendo responsabili di quasi il 17% del PM2,53 (più del settore industriale, che ne emette il 10%). Le percentuali sono anche più alte in regioni come la Lombardia, proprio per il gran numero di allevamenti intensivi presenti, responsabili di circa l’88% delle emissioni di ammoniaca regionali4.
Secondo l’EEA (l’Agenzia Europea per l’Ambiente), il PM 2,5 è stato responsabile di 46.800 morti premature in Italia nel solo 2021. Dati drammatici che posizionano l’Italia al secondo posto in Unione europea per morti premature causate dall’esposizione al PM 2,55.
Come se non bastasse il rischio di nuove epidemie è altissimo. Le condizioni tipiche degli allevamenti intensivi infatti, oltre a provocare spesso sofferenze atroci per gli animali allevati, aumentano esponenzialmente il rischio di nuove zoonosi, sempre più frequenti e agevolate dalla presenza di tanti animali geneticamente simili rinchiusi in spazi ristretti.
Il cambiamento deve partire da un freno all’ulteriore espansione degli allevamenti intensivi e passare per una progressiva riduzione del numero di animali allevati. Serve una moratoria sull’apertura di nuovi allevamenti intensivi e sull’aumento del numero di animali allevati in quelli già esistenti, in particolare nelle zone più inquinate dagli allevamenti intensivi, come molte aree della Pianura Padana.
Gli allevamenti intensivi divorano le nostre risorse e il nostro futuro: è ora di cambiare sistema
Gli impatti degli allevamenti intensivi sono insostenibili: dall’enorme consumo di cereali destinati a diventare mangime per gli animali allevati alla massiccia emissione di ammoniaca nell’aria. Questi impatti compromettono la qualità dell’aria e dell’acqua, minacciando anche la sicurezza alimentare delle persone.
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