«Le fiabe tramandano di generazione in generazione, attraverso un linguaggio allegorico e metaforico, le
formule giuste per uscire dalle trappole delle varie culture che si vengono a creare nel corso del tempo e in cui l’umanità è per sua natura portata a cadere e rimanere vittima. E’ inutile infatti cercare di giudicarne lo stile, l’autore o il genere letterario, perchè esse hanno un solo scopo sostanziale: parlare a una coscienza collettiva, oltre i confini di ogni cultura e di ogni tempo»: lo spiega la dottoressa Sabina Pia Vallerga, psicologa e psicoterapeuta, autrice di uno degli interventi contenuti nel libro
“Psicosofia. Un ponte tra psicologia e spiritualità”.
«Gli archetipi, questi “nuclei” originali, sono come tesori nascosti e contengono l’antica sapienza che guida l’anima nella ricerca di soluzioni per condurre la propria vita in luoghi profondi, autentici, di quella ricchezza spirituale che non si lascia ingannare dai messaggi distrattivi dell’ego. Per raggiungere le parti più profonde dell’essere umano in un dialogo di accompagnamento nel percorso intrapreso con lo Psicosofo, il linguaggio delle fiabe può essere una fonte molto preziosa, un meraviglioso strumento se utilizzato in modo pertinente all’interno della storia del “viandante” – spiega la dottoressa Vallerga – V. J. Propp in “Morfologia della fiaba, le radici storiche dei racconti di magia”, (1966), racconta di una struttura ben precisa che caratterizza le fiabe, parla di tratti cadenzati e forme simboliche che narrano sempre il viaggio dell’eroe attraverso tappe ben specifiche: il perdersi o l’allontanamento iniziale anticipa un atto di disobbedienza (uscita dal percorso prestabilito da qualche forma “oppressiva”), segue di solito la perdita dell’orientamento e la paura, che muove ad affrontare pericoli e sfide, un cosiddetto “addestramento” precede poi la battaglia finale o l’atto risolutivo e, successivamente il ritorno “a casa”, arricchiti di nuove conoscenze, spesso con un dono sapienziale per tutta la comunità. Il fatto che permanga questa struttura in tutte le fiabe, suggerirebbe che c’è qualcosa in alcuni racconti più antichi che restano nel tempo, che non si lascia corrompere, resta integro, proprio come Cappuccetto Rosso che esce dalla pancia del lupo pur avendo sostato nello stomaco di colui che nella famosa fiaba rappresenta “il cattivo”. Pur passando attraverso l’acido corruttore (può essere la cultura dominante come la personale vita di sofferenze) Cappuccetto resta integra».
«In tantissimi libri vengono descritti personaggi che accompagnano le fasi di “nigredo, albedo e rubedo” di ogni fiaba – spiega ancora Vallerga, riferendosi al suo ampio intervento nel libro – La sofferenza da attraversare nella vita, integrare e trascendere fa dunque parte delle vicissitudini umane, appartiene ad una parte di noi con la quale per lo più ci identifichiamo, che è guidata dai sensi e dalle percezioni fisiche. Questa parte ha il compito di allinearsi con la parte profonda, animica, ascoltare il suo sussurro profondo perchè da sola non sa quale sia il “compito” e il “dono” ricevuto in questa vita, la missione da portare avanti nel mondo e se rimane preda della sofferenza identificandosi totalmente con essa, perde l’occasione di imparare una lezione importante per la sua evoluzione».
Nel capitolo di cui è autrice, Vallerga, per fare comprendere “il viaggio” dello Psicosofo con il suo interlocutore, ha scelto una storia Sufi molto antica, «particolarmente indicata ad esprimere il cambiamento da affrontare lungo il percorso intrapreso e quanto bisogno c’è di lasciare andare gli attaccamenti e affrontare insidie e paure attraverso l’attraversamento di sette valli, in un volo di centomila uccelli alla fine del quale restano solo in trenta, decimati da tutto ciò che le valli stanno a rappresentare riguardo agli ostacoli che l’ego trova nel suo volo verso il divino interiore – spiega – Lasciare andare e superare certe credenze e certi attaccamenti porta a rimanere “decimati” fino a trenta, proprio come il nome del Dio che raggiungono e che cercavano, “Simurgh” infatti, tradotto dalla lingua persiana significa “trenta-uccelli”. Il valore sta nello scoprire proprio che siamo noi i creatori della nostra vita, lo specchio di noi stessi, gli inseguitori di un Dio esterno che poi alla fine del viaggio scopriamo essere dentro di noi, ci specchiamo nella nostra stessa natura creatrice, ma mai senza prima aver attraversato quelle valli ed esserci “ripuliti” da quelle parti di noi che dobbiamo lasciare andare prima di scoprire chi veramente siamo».
«Quello che lo psicosofo è chiamato a fare attraverso l’uso delle fiabe, se vuole utilizzare questo strumento, è accompagnare la persona, nella presa di coscienza della “sua” propria fiaba, aiutandola a scoprire magari a che punto metaforicamente si trova nello sviluppo della storia, (in quale valle potremmo dire) aiutandosi con la soluzione che la storia stessa fornisce ad uscire da quel copione o, magari affrettarsi verso la soluzione che la stessa storia suggerisce. Le fiabe (e non le favole o altre storie, di cui nel libro accenno importanti differenze per non confondersi nel seguirle) sono come dei fari nella notte che ci indicano il percorso per tornare al nostro Simurgh, ossia alla nostra casa-anima» conclude Vallerga.