L’associazione Isde Italia si impegna da anni con proposte e richieste tese a promuovere una nuova visione della salute in cui il benessere umano, animale e del Pianeta sono indissolubilmente legati. Abbiamo intervistato Francesco Romizi, responsabile della comunicazione di questa realtà.
L’ambiente come priorità, per il presente e il futuro, e la protezione della salute difendendo l’ambiente: sono due dei principi cardine sui quali si muove ormai da anni ISDE Italia, l’associazione del Medici per l’Ambiente che ha portato e sta portando avanti importanti istanze per un cambio di paradigma che conduca a una sostenibilità oggi più che mai necessaria.
Francesco Romizi, responsabile della comunicazione per l’associazione, è anche uno dei co-autori del volume
“Verso un cibo senza veleni” che affronta l’esigenza di imboccare una strada ben precisa per la cura del suolo e la produzione del cibo, quella che eviti il sovrasfruttamento e la contaminazione con sostanze chimiche dannose.
Lo abbiamo intervistato.
Dottor Romizi, come Isde vi impegnate da anni per avanzare proposte e richieste, per promuovere contenuti e approfondimenti, per sostenere mobilitazioni. Com’è cambiata la situazione da quando Isde si è costituita e quali sono i grandi temi, che seguite, che restano ancora aperti?
«ISDE è nata all’inizio degli anni ’90; da allora la popolazione, i medici e le istituzioni sono più sensibili alle problematiche ambientali. Sono migliorati molti aspetti normativi, soprattutto grazie all’Unione Europea. Ma, nonostante buone leggi, mancano i controlli e le sanzioni e la politica italiana è, purtroppo, la meno progressista su queste tematiche. Per questo, per esempio, abbiamo ottantacinque procedure d’infrazione aperte con l’UE, la metà delle quali riguarda ambiente, trasporti ed energia. I nostri temi sono sempre di più di interesse collettivo anche perché affrontati con rigore scientifico sia nelle dichiarazioni che nelle tesi sostenute. Si tratta di grandi temi ancora aperti, perché tutti collegati tra loro nell’ottica One Health, ossia un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse e sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema sono indissolubilmente legate. Finché la politica, a ogni livello, non farà scelte radicali in quest’ottica, le nostre battaglie saranno sempre importanti e utili».
In questi ultimi dieci anni, secondo voi, sul fronte ambientale e della produzione del cibo la situazione è andata aggravandosi o sono stati fatti passi avanti?
«La produzione agricola ha, purtroppo, assunto le caratteristiche dell’industria, diventando industria agroalimentare. Questo modello sta portando il sistema al collasso. Sempre più persone se ne stanno rendendo conto e stanno facendo scelte di consumo consapevole e sostenibile privilegiando, per esempio, il cibo biologico e a chilometro zero. Se la domanda continuerà a crescere in questa direzione le tante industrie agroalimentari dovranno cambiare modello o chiuderanno. Ma occorre anche che la politica metta dei paletti e dia una direzione chiara al settore agricolo: basta sovvenzioni all’agricoltura convenzionale, stop totale a qualunque tipo di fitofarmaco e sostegno forte al biologico, a partire dai distretti biologici locali».
Cosa ritenete non sia assolutamente più procrastinabile in merito a decisioni che devono essere prese e ad azioni che vanno compiute?
«La lista sarebbe lunga, ma la priorità delle priorità è la riduzione radicale e immediata dell’inquinamento atmosferico. Ciò porterebbe a una diminuzione significativa di morti, al miglioramento delle condizioni ambientali e, quindi, alla mitigazione degli effetti del cambiamento climatico. L’ultima Direttiva europea su questa materia, presentata dalla Commissione europea lo scorso 26 ottobre, va in questa direzione, ma non è abbastanza. Non recepisce tutte le indicazioni dell’OMS e, temo, verrà peggiorata dai Governi nazionali in sede di Consiglio Europeo. E poi le politiche energetiche: basta prendere in giro i cittadini con rigassificatori e nucleare. La soluzione c’è ed è a portata di mano: l’energia da fonti rinnovabili. Il problema è che investire decisamente sulle rinnovabili danneggerebbe i profitti delle aziende del fossile, anche para-pubbliche, e quindi si fa di tutto per non farlo».
Il binomio salute-ambiente può apparire scontato, eppure i fatti spesso dimostrano il contrario. Cosa ne pensa?
«Nel corso dell’ultimo secolo e soprattutto negli ultimi decenni, l’uomo ha prodotto e immesso nella biosfera una quantità immensa di molecole artificiali, trasformato interi ecosistemi biologici, ampliato la gamma delle fonti e forme di energia radiante. Parlare di ambiente e salute significa in primis cercare di valutare quali potrebbero essere gli effetti biomolecolari di questa trasformazione drammatica e complessa, che mette sotto pressione l’assetto genetico ed epigenetico degli organismi viventi. Sarebbe importante riconoscere che per valutare correttamente l’impatto biologico, e quindi sanitario, dell’attuale modello di sviluppo non si può prescindere da una riflessione più complessiva sul rapporto, in via di vertiginosa trasformazione, tra uomo e ambiente. La stessa rivoluzione epidemica del Ventesimo secolo, consistente in una drammatica riduzione delle patologie acute da cause esogene e in un altrettanto significativo incremento delle patologie cronico-degenerative su base endogena, appare sempre più chiaramente correlata alla repentina alterazione dell’ambiente prodotta dall’uomo e alle conseguenti trasformazioni epigenetiche che avvengono nelle prime fasi dello sviluppo del feto e del bambino. In questo contesto si comprende meglio l’allarme, concernente le alterazioni dello sviluppo neurologico infantile secondarie alla diffusione in ambiente di metalli pesanti e distruttori endocrini, lanciato ormai da decenni dai ricercatori di tutto il mondo e ripreso, tra l’altro, da ricercatori della Harvard School of Public Health e da The Lancet con la definizione, allarmata e allarmante, di pandemia silenziosa».
Cosa accomuna i medici e gli scienziati che fanno parte di Isde? E quale messaggio vi sentireste di far arrivare a chi, pur operando negli ambiti della medicina e della scienza, non prende posizione sulle tematiche di cui vi occupate?
«I medici non possono più limitarsi a compiti di diagnosi e cura e non possono più rimanere semplici osservatori; devono sensibilizzare l’opinione pubblica circa le temibili conseguenze che le attività umane producono sugli ecosistemi e sulla salute. Devono porsi come promotori e artefici di un profondo rinnovamento culturale, anche fornendo esempi concreti di come si possono organizzare e gestire le attività sanitarie in modo sobrio, appropriato e sostenibile. Devono sentirsi responsabili anche della tutela dell’ambiente attraverso attività di educazione alla salute nei confronti dei pazienti e di advocacy nei riguardi della comunità, dei decisori politici e delle istituzioni. Ci battiamo da anni per coinvolgere la categoria medica e stiamo riuscendo ad avere uno spazio importante in quasi tutti gli Ordini dei medici d’Italia. Se ci sono resistenze è perché esiste un problema di cultura specifica: dovrebbe infatti esserci nel corso di laurea in medicina una disciplina sul rapporto medico e ambiente. Cambiare la pratica clinica richiede un’adeguata formazione scientifica, quindi risulta difficoltoso accettare nuovi approcci per le patologie ambiente-correlate. Alcuni medici si mostrano indifferenti, altri rassegnati, e non si rendono conto della loro enorme responsabilità. Un altro ostacolo è posto dall’industria e dal conseguente rischio di perdere privilegi acquisiti o la paura di scontrarsi con i poteri forti. Per quanto riguarda la presenza in ISDE anche di altre professionalità scientifiche: è un valore e una risorsa da rafforzare. Il paradigma One Health non può che portarci ad operare in questo senso».