Di seguito la Prefazione di Francesco Gesualdi, del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, al libro
“Oltre il denaro” di Charles Eisenstein (Terra Nuova Edizioni).
«Il denaro è sempre esistito, ma mai aveva assunto la posizione di comando che invece ha oggi. In passato serviva per facilitare gli scambi e dare un valore alle cose, ma la ricchezza era altra. Erano i terreni, il bestiame, gli edifici, i raccolti, la produzione artigianale. Così, fino al 1700, quando i mercanti presero il sopravvento e il denaro passò da servo a padrone perché smise di essere un mezzo e si trasformò in fine. Per il mercante il denaro è tutto, è la quintessenza della ricchezza, non c’è bisogno che si trasformi in gioielli, case, terreni o strumenti, per sostanziarsi. Non a caso lo definisce capitale, sinonimo di principale, primo, fondamentale.
Capitale il denaro e capitalismo il sistema che ha organizzato attorno a esso. Totalmente al servizio dei mercanti per permettere a ciascuno di loro di poter accumulare capitale tramite l’attività classica del commercio che prevede l’utilizzo di una somma di denaro per procurarsi una merce con l’obiettivo di rivendere la stessa a una somma maggiorata.
La prima la chiama costo, la seconda ricavo e la differenza che ottiene, guadagno o profitto. In una spirale senza fine perché il profitto ottenuto lo utilizza per ampliare ulteriormente i suoi commerci in modo da ottenere profitti sempre più ampi. Con l’obiettivo di veder crescere il proprio capitale perché la sua aspirazione è l’accumulo senza limiti. E non confonda il fatto che di forme mercantili ce ne sono molte, compresa quella bancaria che al colmo del corto circuito riesce a realizzare denaro attraverso il denaro senza bisogno di passare attraverso una merce da vendere. Il denaro stesso si fa merce quando è prestato a chi ne ha bisogno in cambio di un tasso d’interesse.
Ogni giorno che passa, questo modello economico si mostra sempre più nemico della persona, della natura, addirittura nemico della vita. Assunto il denaro come obiettivo di sistema e il commercio come strategia di accumulo, il mondo è stato trascinato per sentieri di guerra ed è stato avviato lungo il piano inclinato che lo porta al collasso ambientale. Guerre per il controllo delle risorse e la conquista di mercati sempre più vasti. Collasso ambientale sotto forma di esaurimento di risorse e accumulo di rifiuti come conseguenza di una crescita produttiva perseguita in maniera maniacale al fine di poter disporre di un numero crescente di merci da porre in vendita. Risultati che sono sotto gli occhi di tutti: al giugno 2022 il mondo registrava 359 guerre di cui ventitré ad alta intensità. Intanto i cambiamenti climatici stanno flagellando anche l’Italia con i suoi lunghi periodi di siccità intervallati da uragani che provocano alluvioni e smottamenti.
La ricerca di un altro modello economico è un’esigenza non più rinviabile ed è proprio quello che cerca di fare il libro di Charles Eisenstein, chiarendo fin dal titolo che non si tratta di apportare solo qualche correttivo qua e là, ma di ripensare l’economia in profondità. E tuttavia va precisato che
Oltre il denaro non è la sponsorizzazione di una società senza moneta, quanto di una società che non sia più asservita al denaro.
Il messaggio del libro è che bisogna smettere di concepire l’economia come un’organizzazione per permettere a pochi di accumulare denaro e vederla, piuttosto, come un assetto organizzativo per permettere a tutti di poter vivere dignitosamente nel rispetto dei limiti del pianeta. Un nuovo progetto che prima ancora di essere proposta organizzativa è proposta esistenziale. Nella logica capitalista il massimo bene è la ricchezza perseguita con qualsiasi mezzo, anche a costo di autodistruggerci. E al sommo della colpa non la concepisce come un bene comune da fare godere a tutti, ma come un privilegio riservato a una minoranza. I dati sulla distribuzione del reddito e del patrimonio mettono in luce disuguaglianze scandalose a tutti i livelli. E il sistema non se ne vergogna neanche. Anzi le giustifica sostenendo che senza iniquità non ci sarebbe crescita. Il ritornello lo conosciamo: se dai più soldi ai poveri se li mangiano per migliorare le proprie condizioni di vita, se invece li dai a chi è già ricco li usa per promuovere nuove attività produttive. Dimenticando però che oltre agli investimenti privati sono possibili anche gli investimenti di comunità. Se avessimo un’organizzazione collettiva più forte, potremmo avere al tempo stesso più equità e un adeguato apparato produttivo che in ogni caso dovremmo ridimensionare.
Nella prospettiva della nuova economia, la ricchezza è declassata da obiettivo a strumento. Non più padrona ma serva. Fino a oggi abbiamo agito all’insegna della ricchezza e abbiamo prodotto instabilità umana, disuguaglianze sociali, degrado ambientale. L’alternativa è agire all’insegna della persona, organizzare ogni aspetto della vita sociale ed economica in funzione di ciò che serve per garantire a tutti serenità, sicurezze, armonia, inclusione. Non più la persona costretta ad adattarsi alle logiche della produzione, del mercato, del denaro, ma al contrario, il lavoro, l’abitare, la città, la sicurezza sociale, organizzati nella forma più consona alla dignità umana in un rapporto di armonia con se stessi, con gli altri, con la natura. Ed ecco l’emergere di un’altra idea di sviluppo non più basata sulla quantità di cose che sappiamo produrre, ma sul grado di felicità che sappiamo raggiungere, ricordandoci, come Gesù ebbe a dirci già duemila anni or sono, che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Un’enunciazione che volendola parafrasare in chiave moderna e laica potrebbe diventare “non di solo Pil vive l’uomo, ma di tutte le sue relazioni”.
Per troppo tempo abbiamo pensato che la felicità si misuri solo in termini di ricchezza e di agiatezza, ma l’esperienza ci dice che dipende anche da quanto ci sentiamo amati, da quanto tempo possiamo trascorrere con i nostri cari e i nostri amici, da quanto tempo possiamo dedicare alle nostre passioni e ai nostri interessi, da quanto ci sentiamo protetti, da quanto ci sentiamo realizzati, da quanto sappiamo guardare al futuro con ottimismo, da quanto ci sentiamo liberi e capaci di partecipare. Il che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che l’essere umano non è solo dimensione corporale, ma anche affettiva, sociale, spirituale, per cui si ha vera felicità solo se tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. Una prospettiva che gli indios chiamano “benvivere”, l’unica che può salvarci.
Per ritrovare la felicità dobbiamo liberare la società dal dominio assoluto del denaro, ossia della ricchezza, che poi significa passare dall’economia della crescita all’economia dell’armonia. Un concetto condiviso da molti con la testa, ma rifiutato con le viscere. Spontaneamente abbiamo tutti paura a staccare la spina da questo sistema, perché è stato così abile da averci legati tutti a doppio filo al suo carrozzone. Il legame si chiama lavoro salariato. Abbiamo tutti ben chiaro che in questo sistema mercantilista, che ha trasformato perfino il lavoro in merce, non abbiamo altra prospettiva di vita se non quella di bussare alle porte delle imprese e chiedere se hanno uno straccio di lavoro per noi. Un lavoro che ci garantisca uno stipendio che poi possiamo spendere al supermercato per procurarci ciò che ci serve per vivere. E poiché per le imprese il lavoro è un costo, fanno le preziose rispondendo che sì, il lavoro potrebbero anche averlo, ma solo se accettiamo il precariato e bassi salari. Con una precisazione: indipendentemente da tutto la precondizione per creare occupazione è che siano garantiti alti consumi, perché le aziende producono per vendere. Se non vendono non assumono, bensì fanno l’operazione inversa che è quella di licenziare. Così nella nostra società il consumo è diventato una virtù che tutti sosteniamo.
La conclusione è che non riusciremo mai a passare da un’economia dello spreco a un’economia della sostenibilità finché non troveremo altre strade che permettano ai singoli e alle famiglie di procurarsi da vivere senza dipendere dal consumo degli altri. Ecco perché le riflessioni di principio sull’economia del dono non bastano più. Come non bastano più le esortazioni a comportamenti individuali virtuosi o alla creazione di monete locali per lo sviluppo delle economie del territorio. Contemporaneamente serve una grande riflessione sul senso e le forme del lavoro, oltre che un ripensamento sul ruolo del mercato, sul ruolo dell’economia pubblica e soprattutto sul modo di farla funzionare.
Oltre il denaro è un buon inizio, ma c’è ancora molta strada da fare.