Usualmente, per la panificazione industriale, vengono considerate più adatte le cosiddette farine “forti”, quelle cioè provenienti da cereali che presentano una forte componente proteica: la gliadina e la glutenina. Queste, a contatto con l’acqua, reagiscono e formano il glutine, una proteina complessa che crea un reticolo all’interno della massa di farina e acqua, rendendola compatta, elastica e permettendole di trattenere i gas che si sviluppano al suo interno durante la lievitazione.
Le farine “forti” non richiedono lunghe lavorazioni e danno risultati accettabili anche con alte percentuali di lievito.
D’altra parte c’è chi sostiene che il forte consumo di glutine fin dalla tenera età possa essere responsabile della sempre maggiore diffusione di disturbi legati ad intolleranze alimentari o a vere e proprie allergie, come la celiachia.
È comunque vero che il glutine costituisce la struttura necessaria perché il pane cuocia in modo appropriato e l’aumento della sua presenza percentuale nel grano è stata oggetto di accurata e prolungata selezione nelle sementi.
In commercio si trova una farina extraforte che viene utilizzata soprattutto industrialmente e che prende il nome dalla provincia canadese in cui viene prodotta: Manitoba. È una farina ad alta presenza di proteine insolubili (sostanzialmente di glutine) utile per la produzione di pani dolci o per sostenere farine più deboli nella panificazione.
Un ultimo accenno ai “tipi”: la normativa italiana stabilisce che vada etichettata come “00” la farina che ha subito abburattamento (setacciatura) del 50%; farina “0” quella abburattata al 72%, farina “1” quella all’80% e farina “2” quella il cui grado di abburattamento è dell’85%; la farina integrale invece ha subito solo un primo processo di macinazione, senza buratti.
Ricordo che molti prodotti da forno definiti “integrali” in realtà contengono spesso farine “ricostruite”, cioè farine bianche a cui è stata riaggiunta la crusca.
Questa è la parte più esterna del chicco, che in molti piccoli mulini viene separata da quello che in Toscana si chiama “tritello“, la parte nutritivamente più preziosa e che dovrebbe essere integralmente presente nella farina tipo “2”, risultante dalla sola asportazione della crusca.
In generale, comunque, le farine più fini e bianche (di tipo “00” o “0”) sono più ricche di amido, che favorisce la riproduzione dei lieviti e lo sviluppo del glutine, ma più povere di fibre, proteine, vitamine, grassi ed enzimi, tutte sostanze che caratterizzano la parte esterna del chicco, rimasta in maggior quantità o totalmente nelle farine di tipo 1 o 2. Potremmo dedurne che queste ultime siano comunque da preferire, almeno rispetto ai valori nutrizionali.
Fondamentale è la fermentazione nel limitare l’attività di assorbimento dei minerali da parte dell’acido fitico. Giova ribadire l’utilità della lievitazione acida per favorire l’azione della fitasi, un enzima naturalmente presente nella farina, il quale “scompone” l’acido fitico rendendo i minerali disponibili all’assorbimento.
In conclusione, quindi, il pane integrale può diventare un alimento insostituibile nella dieta giornaliera solo se lievitato naturalmente e se la presenza di fibre non si limita alla sola crusca.
Ultimo, ma non meno importante, la “freschezza” della farina. Il seme del grano contiene vitamina B nella parte esterna (crusca) e vitamina E ed acidi grassi polinsaturi (PUFA) nel germe. Con la molitura le parti esterne vengono frantumate, così sia la vitamina E che i PUFA sono esposti ad ossidazione e degradazione nutrizionale. Per questo è importante rifornirsi regolarmente di farine fresche.
È anche preferibile privilegiare farine molite a pietra per due essenziali motivi. Il primo è che le mole a pietra, diversamente dai rulli di acciaio, non si scaldano e quindi non sottopongono i grani (e gli oli che contengono) a temperature che possano danneggiarli o comunque modificarne le caratteristiche nutrizionali. Il secondo è che la molitura a pietra impedisce nella pratica la divisione fra la farina bianca e molte sue componenti “fini”, che restano presenti anche nelle farine abburattate (a cui viene tolta quindi solo la crusca), garantendo un apporto nutrizionale di qualità.
Molti infatti decidono di acquistare mulini domestici con cui macinare i cereali man mano che li utilizzano.
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Nel 2008 usciva la prima edizione di questo libro dedicato al
pane a lievitazione naturale, seguito da ben undici ristampe. In poco più di un decennio la
pasta acida è diventata la padrona incontrastata di innumerevoli blog, siti web, gruppi Facebook, tutorial e corsi. Allora perché impegnarsi nel difficile compito di aggiornare questo manuale? Perché senza dubbio ci sono ancora misteri da svelare, azzardi da non lasciare intentati, miscugli da provare e un sacco di ricette che, semplicemente, non funzionano e meritano di essere messe in discussione.
L’autrice, insieme a un gruppo di “spavalde avventuriere della pasta acida”, si è buttata quindi a capofitto in nuove sperimentazioni, che troviamo qui ben documentate e raccontate: pani con farine deboli di grani antichi, pani con una riduzione della pasta acida per compensare quando il metabolismo rallenta, pani con farine di mulini specifici e così via. Il risultato è un manuale ancora più completo, arricchito con la descrizione di nuove tecniche, informazioni e ricette, con una nuova sezione sui pani delle feste e una rinnovata attenzione per le esperienze e la salute di tutti gli attori della filiera, da chi coltiva le farine a chi le lavora e le consuma. Un libro scritto sia per chi si avvicina alla pasta acida per la prima volta, sia per chi se l’è fatta amica da tempo.