Spesso si ha l’impressione che la politica si sia dimenticata completamente del mondo agricolo.
E non stiamo esagerando, perché è innegabile che le politiche degli ultimi decenni abbiano favorito un modello di agricoltura industriale, poco attento alla biodiversità e alle dinamiche sociali che da alcuni anni accompagnano il mondo dell’agroecologia.
Dal punto di vista istituzionale, però, forse le cose stanno cambiando, perché la nuova Strategia europea biodiversità 2030 fissa dei programmi ambiziosi. Se finora le iniziative sulla conversione verso un’agricoltura sostenibile assomigliavano a un’opera di maquillage, per la prima volta la Commissione europea esplicita chiaramente che la conservazione della biodiversità richiede una trasformazione profonda delle pratiche agricole. La Strategia interviene direttamente nelle pratiche delle aziende agricole con obblighi importanti, dettagliati e cogenti: ridurre la quantità di fertilizzanti del 20% e la perdita di nutrienti del 50%, ridurre del 50% l’uso di antibiotici in ambito zootecnico. Si prevede, inoltre, la tutela degli impollinatori per arrestarne il declino, ponendo al bando alcuni fitofarmaci o aggiungendo il divieto del loro utilizzo nelle aree sensibili, tra cui le aree urbane. Si prevede di arrivare al 25% di superficie agricola coltivata a biologico e al 10% a paesaggi a elevata diversità.
La parola d’ordine è proprio questa: biodiversità, la cui importanza travalica in senso stretto il futuro dell’agricoltura e riguarda tutte le sfere più importanti dell’umanità, a cominciare dalla salute.
La biodiversità entra nel piatto
In passato ci nutrivamo di circa 10 mila specie vegetali, mentre oggi il 60% delle calorie che ingeriamo proviene da tre specie: riso, granturco e frumento. E anche all’interno di esse il miglioramento genetico ha decimato la biodiversità, riducendone ulteriormente le capacità di difesa, l’adattabilità e, non per ultimo, le caratteristiche nutrizionali degli alimenti.
Ma noi consumatori siamo pronti ad accogliere la biodiversità nel piatto?
La nozione di «varietà» non riguarda il consumatore comune che, il più delle volte, non è consapevole che questa esiste. Il consumatore comune, spesso, non è interessato a sapere il nome del porro o della zucchina che si trova nel piatto. Può, tuttavia, aver notato che le zucchine possono essere lunghe o rotonde, gialle o verdi, più dolci o più amare. La diversità delle varietà e ancor più la loro struttura e la loro origine rimangono un mistero per molti. Poi però è avvenuto qualcosa che ha rinsaldato un nuovo legame tra consumatori e agricoltura contadina.
La questione è giunta all’attenzione dell’opinione pubblica negli anni ’90, quando è stata raggiunta la svolta Ogm con una messa in discussione della loro potenziale pericolosità per il resto del mondo vivente, anche se le piante stesse erano state sottoposte a modifiche non naturali (mutagenesi, fusione cellulare, aplodiplometria) e da diversi decenni erano già presenti nei campi e nei piatti. La reazione di sfiducia verso gli Ogm è diventata gradualmente un movimento sociale su larga scala, che ha travolto l’intero Pianeta e che da allora non si è mai spento. La questione della selezione delle piante è finalmente uscita dall’ombra e ha permesso di aumentare la consapevolezza che le scelte tecniche sono anche scelte sociali. Queste scelte invitano quindi a mettere in discussione sia le ipotesi scientifiche che l’universo culturale dal quale sono scaturite: il riduzionismo e la progressiva omologazione delle specie viventi.
L’agricoltura e le malattie
I profondi cambiamenti nell’alimentazione sono iniziati con l’introduzione dell’agricoltura e della coltivazione, circa 10 mila anni fa, ma sono accelerati molto recentemente su una scala temporale evolutiva troppo veloce, tanto che gli esseri umani faticano ad adattarsi. Così, in risposta a questa discordanza tra la nostra biologia e la nostra dieta, associata alle forme di attività delle popolazioni occidentali contemporanee scollegate dalla natura, sono emerse le cosiddette malattie «di civiltà».
Queste malattie sono diffuse nelle popolazioni occidentali contemporanee e generalmente colpiscono il 50-65% della popolazione adulta, ma rimangono rare o inesistenti tra i cacciatori-raccoglitori e altre persone meno occidentalizzate. Anche se queste malattie della civiltà sono multifattoriali, la malattia coronarica (insufficienza delle arterie del cuore), per esempio, non è semplicemente il risultato di un eccesso di grassi saturi nella dieta, ma piuttosto una complessa interazione di molteplici fattori nutrizionali direttamente legati al consumo eccessivo di nuovi alimenti dell’era neolitica e prominente nell’era industriale (latticini, cereali, cereali raffinati, zuccheri raffinati, oli vegetali raffinati, carni grasse, sale e combinazioni di questi alimenti). Questi alimenti hanno alterato fondamentalmente sette caratteristiche nutrizionali cruciali delle diete ancestrali dell’uomo:
• il carico glicemico (direttamente correlato allo zucchero);
• la composizione in acidi grassi;
• la composizione dei macronutrienti;
• la densità di micronutrienti;
• l’equilibrio acido-base;
• il rapporto sodio-potassio;
• il contenuto di fibre.
In mancanza di una dieta sufficientemente ricca e varia si è pensato poi di correggere il tiro introducendo il concetto di «biofortificazione», generalmente ottenuto attraverso piante Ogm progettate per riequilibrare la composizione dei nutrienti.
La pianta biofortificata più conosciuta e molto discussa è il Golden Rice che si crede fornisca la vitamina A che manca nella dieta in alcune parti del mondo, la cui carenza provoca problemi di cecità nei bambini. Tuttavia, questa vitamina si sta rapidamente degradando e questa apparente soluzione nasconde uno squilibrio molto grave e profondo nei sistemi alimentari di queste regioni che hanno perso la loro dieta diversificata ed equilibrata a causa della globalizzazione dell’economia. Le risaie, prima di essere «ripulite» con gli erbicidi, erano spesso mescolate con lattughe e spinaci selvatici che contenevano la giusta quantità di vitamina A… ma senza il brevetto di coltivazione.
Il problema della mancanza di diversità alimentare, e quindi di diversità coltivata, colpisce tutti i paesi del mondo in termini di salute. Ma il cambiamento è in corso, poiché questa diversità agricola è stata finalmente promossa negli organismi internazionali come un pilastro indispensabile della sicurezza alimentare. La biodiversità non può essere raggiunta senza un’agricoltura sana che salvaguardi anche il futuro del suolo e della vita microbica.
La diversità microbica, riconosciuta come un fattore chiave nella prevenzione delle malattie umane e vegetali, può essere rianimata solo attraverso un profondo cambiamento nel modo di pensare la vita e di organizzare la ricerca olistica e transdisciplinare, rompendo con il riduzionismo che ha inquinato la mentalità anche di coloro che sono più lontani dal mondo della scienza.
Quanto è sano il bio?
La ricetta dell’agroindustria è rivolta all’aumento di produzioni. Abbiamo dato corpo a una fabbrica globale del cibo che finisce nelle mani della Grande distribuzione organizzata. Il risultato è uno scarso accesso al cibo e una dieta sempre più omogenea e sbilanciata: una persona su tre nel mondo soffre di carenze di micronutrienti, mentre quasi due miliardi di persone sono in sovrappeso o obese.
Si tratta per di più di un sistema altamente inefficiente, che sta in piedi solo grazie ai prezzi irrisori delle fonti fossili e al sostegno delle casse pubbliche. Proprio così, siamo noi, con i soldi delle nostre tasse a permettere all’industria del cibo di poter andare avanti. Se i governi del Nord del mondo non attuassero il sostegno diretto agli agricoltori, l’intero sistema collasserebbe. Se solo le multinazionali e i loro emissari dovessero sostenere i reali costi di produzione e pagare i danni causati da decenni di intenso sfruttamento e avvelenamento dei suoli, crollerebbero tutti i guadagni e scomparirebbero tutte le merci dagli scaffali.
I sistemi convenzionali si basano sulla standardizzazione, sui trasporti su lunga distanza e sulla trasformazione industriale dei raccolti. Invece, il cibo coltivato in modo naturale, tradizionale e biologico si fonda su biodiversità, sicurezza, sapore, qualità e resilienza.
Nel 2009, è stato stimato che il 95% delle sementi utilizzate nell’agricoltura biologica proveniva da un programma di selezione convenzionale. Si tratta di piante coltivate nelle stazioni sperimentali, pensate per un modello produttivo universale, per nulla adattato alle diverse condizioni pedoclimatiche, con poco riguardo alle caratteristiche nutrizionali. Anche se i professionisti delle sementi riescono a mettere sul mercato «semi biologici», e questo accade quando le piante portatrici di semi sono state coltivate in condizioni di agricoltura biologica, le varietà sono ancora sviluppate e selezionate in condizioni di agricoltura convenzionale. La differenza è spesso difficile da capire per il grande pubblico e anche per molti produttori. Questi ultimi dicono: «I miei semi sono biologici, quindi non ci sono problemi». Pochi si preoccupano di sapere se i metodi di selezione sono stati coerenti con i principi dell’agricoltura biologica come stabilito dall’Ifoam, la Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica. Non ci sono solo gli Ogm che minano la diversità agricola e alimentare. Tutti questi metodi sono spesso una scatola nera che contiene tutti i segreti dei selezionatori, compresa l’applicazione della mutagenesi, le diverse forme di manipolazione delle cellule e dei genomi (esclusi gli Ogm che devono essere dichiarati in quanto soggetti a normative specifiche).
Tuttavia, dalla fine degli anni ’90, a partire dalla Francia, la preoccupazione di avere varietà prive di manipolazioni biotecnologiche è stata una profonda motivazione per i pionieri della selezione contadina. I contadini hanno preso il controllo del futuro delle loro colture selezionando e moltiplicando le loro sementi. Le iniziative sono emerse con diverse motivazioni concomitanti e sinergiche, come: avere piante adattate e resistenti offrendo prodotti di qualità; soddisfare l’obbligo di utilizzare sementi biologiche nell’agricoltura biologica e, non per ultimo, riconquistare l’autonomia dei semi. Alla fine degli anni ’90 sono stati anche i panificatori ad aver dato il via alla rinascita delle sementi locali. Tutto doveva essere reimparato: la selezione, la coltivazione delle cosiddette «varietà antiche», la molitura e la cottura. Sulla loro scia, la stessa avventura è iniziata per altre specie coltivate ed è oggi diventata la nuova frontiera dello sviluppo del biologico.
L’evoluzione del biologico. Possiamo fidarci?
All’interno dell’Ifoam la riflessione sull’evoluzione dell’agricoltura biologica ha portato a considerare tre tappe nella storia dei movimenti per arrivare al concetto di biologico 3.0.
La prima fase, o «Organic 1.0», dal 1920 ad oggi, rappresenta l’era dei pionieri in tutto il mondo. Il biologico 2.0 inizia negli anni ’70 con la nascita di Ifoam e le sue specifiche, quindi con la formalizzazione dei principi del biologico a livello internazionale. Questa fase corrisponde alla trascrizione dei principi del metodo di produzione biologico in testi legali, necessaria per le diverse forme di certificazione e per portare il biologico nei circuiti economici. L’»Organic 3.0» sarebbe la fase di crescita del biologico, ovvero quella che prevede di portare la produzione, la trasformazione e il consumo di prodotti biologici fuori dal loro status di «nicchia», promuovendoli e trasformandoli nel modello generale del nostro sistema alimentare. Questa fase sarebbe anche quella che andrebbe a integrare le nuove forme di agricoltura biologica più orientate ai contadini, enfatizzando l’agricoltura familiare, i piccoli contadini e l’agroecologia. Organic 3.0 si impegna anche per il commercio equo, per un migliore riconoscimento del legame tra l’azienda agricola e il consumatore finale, e per un migliore calcolo dei costi che tenga conto delle esternalità positive e negative sull’ambiente.
Tuttavia, nei circoli del biologico emersi dai movimenti pionieri, c’è una chiara paura dell’omologazione del biologico. Questo timore si è delineato abbastanza presto, nei primi anni 2000, con un aumento di richiesta del mercato che incoraggiava forme di produzione più specializzate e massicce per soddisfare la domanda, dimenticando così i principi fondamentali che hanno motivato i pionieri al rispetto degli ecosistemi e delle persone, a partire da chi produce. In questo dibattito è stata rilevata anche la mancanza di conoscenza dei fondamenti dell’agricoltura biologica, una lacuna che favorisce l’aumento del numero di operatori che fanno ancora riferimento a un pensiero «convenzionale» anche nel bio. Quante pratiche si basano ancora sulla sostituzione degli input chimici dell’agricoltura convenzionale con prodotti biologici! Molti esperimenti o raccomandazioni indirizzate ai bioagricoltori sono ancora basate sulla logica di portare input esterni (magari di origine biologica) all’azienda per coprire i bisogni delle colture. Purtroppo la ricerca, in particolare nella selezione delle piante, è spesso la prima ad adottare questo ragionamento, selezionando varietà resistenti alle malattie che sono il risultato del pensiero agricolo convenzionale.
Tuttavia, accanto a questo percorso di sviluppo, spesso associato alla vendita in canali di distribuzione lunghi, che rappresentano un altro modo di «convenzionalizzare» i prodotti biologici, è emersa
una nuova cultura capace di individuare e sostenere i prodotti biologici autentici, dal campo al piatto, che stanno assumendo anche un ruolo sempre più importante nei nostri paesaggi agricoli.
In molti paesi, tra cui sicuramente l’Italia, ciò favorisce un riconoscimento della
visione contadina del fare agricoltura, che consiste in
una dimensione culturale e socioeconomica più collaborativa e in un profondo attaccamento al territorio, ai suoi gusti e alle sue tradizioni. In questo movimento confluiscono anche altre correnti, come la
permacultura e un insieme di altre
tecniche rigenerative, che si basano sulla
progettazione di sistemi ecoalimentari sostenibili.
Queste agricolture condividono tutte l’obiettivo comune di cercare di massimizzare la diversità per la sostenibilità degli agroecosistemi e di riuscire ad allontanare l’agricoltura dalla dipendenza dai combustibili fossili. A partire dalla diversità delle sementi. Alla base di tutto c’è bisogno che noi consumatori sappiamo riconoscere il valore di questo nuovo emergente modello agricolo, per portare nel piatto un biologico che sia vera espressione di biodiversità e di salute.
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All’
origine di ogni cibo, c’è un
seme. Il chicco di grano è l’inizio del nostro pane, il seme del foraggio mangiato dalla mucca è l’origine del nostro formaggio e un seme d’uva è la radice dei nostri vitigni e del nostro vino.
Questo libro invita a una nuova collaborazione tra agricoltori biologici e cittadini, tra coloro che coltivano la terra in modo sostenibile e coloro che con le loro scelte di consumo possono condizionare il mercato e le scelte economiche più ampie.
Solo questa alleanza può garantire lo sviluppo di sementi e varietà prodotte e adattate in un’ottica di sostenibilità e di salute del cibo che portiamo in tavola, per far rivivere la biodiversità.
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