L’arte al servizio dell’ecologia per una nuova interazione tra uomo e ambiente. Abbiamo intervistato l’artista salentino Luigi Coppola: dal corpo a corpo con gli ulivi colpiti dalla Xylella a un nuovo modo di intendere la progettazione dei paesaggi.
Negli ultimi anni molti artisti stanno dedicando la propria ricerca alle questioni ecologiche, alla comprensione delle dinamiche ambientali. Si tratta di persone che lavorano con una rinnovata consapevolezza rispetto all’interazione dell’uomo con l’ambiente, elaborando poi dei progetti di ricerca e riflessione estetica e politica.
Attingono dal rapporto con la terra, dalle scienze, dall’antropologia, per produrre nuove narrazioni e stimolare la creazione di un nuovo immaginario, utile ad affrontare la crisi ecologica e sociale in atto. Sono artisti che, con pratiche diverse, agiscono secondo un sentire comune, proponendo processi di attivazione dei territori, coinvolgendo gli abitanti dei luoghi, agricoltori, artigiani. Trasmettendo e rielaborando valori e conoscenze. L’oggetto estetico, installazione, immagine, scultura, performance, è in questi casi il condensato di un’esperienza, di un processo, il risultato di una relazione.
Luigi Coppola è nato in Salento, dove è parte del collettivo Casa delle Agriculture di Castiglione d’Otranto, con cui ha fondato un progetto di sviluppo rurale basato su pratiche agricole e comunitarie che ha l’obiettivo di far rivivere i terreni abbandonati, ripopolare le campagne e generare un’economia sostenibile rafforzando la coesione sociale. Lavora intrecciando pratiche agricole ed estetiche, con uno sguardo verso la complessità dei territori.
Coppola fonda il suo lavoro sui principi dell’agroecologia e della permacultura, che sviluppa in progetti a lungo termine, attivando processi partecipativi, con un’attenzione ai beni comuni e alla costruzione di comunità.
In tempo di pandemia ti sei dedicato a un aspetto locale che affligge da anni questi territori, l’epidemia da Xylella fastidiosa, che colpisce anche gli ulivi di tua proprietà, intraprendendo una lunga azione agricola-estetica-poetica. Un corpo a corpo con alberi da curare, per curare se stessi, o meglio, per stringere un’alleanza e provare a curarsi insieme. In che modo stai lavorando e quali obiettivi ti prefiggi?
Contagio, epidemia, zona infetta sono parole che in Salento sono parte del vocabolario già da tempo. Il CoDiRO (Complesso da disseccamento rapido), originato dal batterio, ha iniziato ad espandersi circa dieci anni fa coinvolgendo milioni di alberi e migliaia di ettari di terreno. E pare inarrestabile. Si parla di ulivi morti, ma il più delle volte hanno ancora le radici vive, forse non sono produttivi, ma bisogna imparare a convivere con questi fantasmi, prendersi le proprie responsabilità, pensare che anche noi «siamo» il paesaggio. Dobbiamo includerci in quel dramma e metterci le mani per recuperare un contatto con l’ecosistema a cui apparteniamo, un vinculum. In salentino i vinchi sono i polloni, la vita che dall’albero continua a germinare.
Io provo a imitare la natura, operando in modo rigenerativo. Costruisco colline vegetali, scavando solchi e interrando prima i tronchi più grandi fino ai rami più sottili, rimettendo in circolo la materia organica. Alcuni dei rami che ho dovuto tagliare li sto usando per rinfoltire e sostenere le fragili chiome che rimangono. Con il materiale secco creo barriere che riparano dai venti e costruisco delle strutture intrecciate come supporti per la crescita dei nuovi alberi che pianto: fichi, gelsi, pistacchi, querce, melograni e ulivi di varietà più resistenti al batterio. Come in una grande scultura vivente.
Da alcuni anni lavori elaborando pratiche agricole in chiave estetica ed esprimi la necessità di un cambiamento a partire dalla terra, dai beni comuni e dalle comunità. Quale ruolo pensi possa giocare l’arte in questo cambiamento?
L’arte può avere un ruolo fondamentale nei
processi di costruzione dei beni comuni, che sono presenti in tutti i campi del nostro agire quotidiano, ma allo stato latente, imprigionati da limiti culturali ed economici. Credo che l’artista, proprio perché lavora sull’immaginario, abbia la capacità di sintetizzare la complessità e trovare le formule simboliche e di narrazione per riconoscerli e farli emergere. Ma i beni comuni possono agire anche come collante sociale, politico, in seno a una collettività, finché la comunità resta coesa intorno ad essi.
Con Casa delle Agriculture abbiamo iniziato dalla terra, provando a coltivare e curare terre private sottratte all’abbandono, ai veleni e all’incuria, e terreni pubblici, con la rete di percorsi rurali. Per coltivare abbiamo fatto un lavoro sulla biodiversità e sui semi attraverso la selezione, la riproduzione e la trasmissione. In seguito abbiamo creato le infrastrutture in grado di rendere sostenibile il processo, come il Mulino di Comunità e il Vivaio dell’Inclusione.
In questo processo collettivo integriamo la ricerca artistica, il lavoro sull’immaginario, la narrazione e la rappresentazione, con azioni agroecologiche, economiche e sociali. Quello che sto sperimentando è un ruolo dell’artista che lavora con i propri strumenti all’interno dei processi reali di trasformazione. E perché credo nella potenzialità dell’arte come motore di cambiamento è importante che si pratichi in relazione.
In quello che fai è evidente un coinvolgimento personale, etico, politico. Quale ruolo gioca l’utopia nel tuo procedere e immaginare?
La narrazione utopica aiuta ad agire nel presente pensando che i luoghi in cui si vive possono avere delle prospettive diverse da quelle a cui sembrano condannati. A Castiglione d’Otranto abbiamo adottato il motto: «Chi semina utopia raccoglie realtà», una frase di Carlo Petrini che ben si adatta all’approccio molto concreto che abbiamo nel trattare le utopie, coltivandole ogni giorno e cercando di superare i limiti del presente.
Le utopie, quando non sono condivise, ma sono calate dall’alto, possono trasformarsi in distopie. Pensiamo per esempio alle tante periferie costruite secondo principi urbanistici e architettonici utopici, che si sono rivelate già nel loro farsi luoghi del degrado, diventando dei non luoghi. Alcuni anni fa, insieme al fotografo e urbanista Davide Franceschini, abbiamo lavorato per diversi mesi con un gruppo di giovani nel ripensare il processo che aveva portato alla costruzione di Spinaceto, alla periferia di Roma. Ebbene, quella spinta progettuale che immaginava la vita di decine di migliaia di persone immerse in una città giardino, si era trasformata in un grande fallimento. Con gli studenti siamo partiti da quelle utopie, immaginando come sarebbero state se fossero state frutto di una comunità con un orizzonte comune, e abbiamo provato a rappresentarle negli spazi pubblici, nei parchi, ma soprattutto nel cuore di ognuno.
La tua ricerca affonda le radici nel teatro, esperienza che ora traduci in performance collettive per la ricostruzione di una bellezza partecipata. In che modo dialogano tra loro nel tuo lavoro corpo umano, corpo sociale e corpo vegetale?
Credo che sia un momento storico in cui abbiamo un bisogno disperato di sperimentare la condivisione e lo stare insieme per degli obiettivi comuni. I rituali che puntellavano la vita delle comunità sono diventati forme individualiste di partecipazione, spesso virtuali. Sempre di più sto comprendendo quanto sia generativo costruire dei momenti di eccezionalità, in cui le relazioni tra persone, con il paesaggio di cui siamo parte, con i fantasmi del passato e del presente, si rifondano e si ricostruiscono. In questo senso, per esempio, a Cirigliano, un piccolissimo paese della Lucania, abbiamo costruito un rito di attraversamento, la Parata delle stagioni che verranno che allo stesso tempo riapriva dei sentieri rurali e si connetteva con una storia rituale antichissima del carnevale rurale. In Salento gli attraversamenti rituali collettivi nel paesaggio fantasma post-epidemico sono momenti importanti per aprire nuovi modi di vedere le cose e provare a reagire insieme. Nel prossimo futuro il mio impegno sarà ancora più concentrato a promuovere azioni quali il camminare insieme, osservare, comprendere, costruire narrazioni inclusive, sperimentare con il proprio corpo modi di rientrare nei cicli del vivente e non vivente.
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