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La pace come «nuova normalità» è possibile?

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Giornalista Rai, documentarista e inviato, Raffaele Crocco ha vissuto i teatri di guerra nell’ex Jugoslavia, in America Latina, in Oriente, si è occupato di neonazismo in Padania e di Tangentopoli. Ecco la sua visione sull’attuale guerra Ucraina, che lui definisce «una eccezione».
La pace come «nuova normalità» è possibile?
La cosa magnifica sarebbe parlare di pace in tempo di pace. Intendo, dovremmo smetterla di legarla sempre alla fine di una qualche guerra. Dovremmo cominciare seriamente a considerarla come la «nostra normalità» e non un evento eccezionale, straordinario della nostra vita individuale e collettiva.
È proprio questo «farne utopia» che rende la pace così fragile, così debole, in fondo anche così poco affascinante. Ne abbiamo la prova in queste settimane, con la nuova, violenta fase della guerra in Ucraina a mettere in discussione tutto ciò che negli anni si è costruito attorno all’idea della pace. La polemica è violenta, chi dice no al riarmo dell’Ucraina e a quello dell’Europa è considerato un traditore: storia vecchia questa, di far passare per codardi e traditori quelli che non vogliono la maschia guerra.
Eppure, negli anni ci siamo illusi che qualcosa fosse cambiato. Certamente, è cambiato il movimento pacifista di questo paese. Proviamo ad andare indietro. Vado a ciò che ricordo meglio. Al 1991. Era il tempo della «madre di tutte le guerre», in Iraq, con il mondo schierato per la prima volta – nel 2003 ci sarebbe stata la seconda e definitiva – contro Saddam Hussein per liberare i pozzi di petrolio del Kuwait. Era il tempo della guerra nella ex Jugoslavia, proprio vicino casa. Erano i mesi della dissoluzione dell’Unione Sovietica,della fine della Guerra Fredda. Era il momento dell’illusione sulla fine del pericolo nucleare, con gli arsenali che si riducevano per volontà delle grandi potenze.
A riguardarli ora appare evidente come fosse differente la percezione che avevamo della parola stessa: pace.

Com’è cambiato il concetto di pace

Pace, per molti di noi che partecipavano alle manifestazioni – a volte davvero oceaniche – per fermare i conflitti, era semplicemente impedire la guerra, cioè lo scontro armato. Oppure, era far cessare la guerra, in qualunque modo, a qualsiasi costo.
Altro tema, soprattutto negli ’80, era bloccare la proliferazione nucleare, abbattere e azzerare il numero degli ordigni nucleari ammassati nei depositi di grandi e medie potenze. Erano pochi, davvero pochi, quelli che sapevano e capivano che la pace era altro, era di più: una costruzione lenta, inesorabile, difficile, inflessibile, quotidiana, che coinvolge tutti e ciascuno.
Oggi, trent’anni dopo, quella consapevolezza si è fatta strada, è diventata conoscenza più condivisa, azione quotidiana. Ora sappiamo esattamente che la guerra è effetto, non causa, arriva cioè là dove diritti umani, libertà, equa distribuzione del reddito restano lettera morta. Così, fino agli anni ’90, il movimento per la pace era rivolto soprattutto agli effetti, al «fermiamo la guerra». Ora è diventato il luogo di costruzione dell’alternativa, con il tentativo di demolire le cause delle troppe guerre.

La meccanica della guerra

Le cose le abbiamo davvero sotto gli occhi, narrate quotidianamente dai tanti mezzi di informazione. Nelle 34 guerre oggi accese nel Pianeta, ritroviamo sempre le medesime ragioni, cause. E i risultati, ormai, li tocchiamo con mano, non sono mai lontani. Prendiamo il fenomeno delle migrazioni, diventato terreno di scontro e confronto negli ultimi dieci anni. Migliaia di individui, lungo i Balcani o attraverso il Mediterraneo, fuggono dalla guerra in Siria, Afghanistan, Pakistan, ora in Ucraina, tentando di arrivare nell’Unione europea. Oppure, fuggono dalla fame, dalla mancanza di diritti e libertà dell’Africa, dell’Asia. Le migrazioni – 270 milioni gli individui in movimento – raccontano con precisione i livelli di disuguaglianza, ingiustizia, cattiva distribuzione del reddito e dei diritti che le donne e gli uomini del Pianeta vivono.
Sono gli stessi temi della meccanica della guerra. È, se ci pensiamo, la grande partita di un mondo spaccato fra chi ha molto e chi non ha nulla. Una partita che si gioca su molti tavoli. Oggi, i 2153 miliardari censiti hanno più ricchezza di 4,6 miliardi di persone e il patrimonio delle 22 persone più facoltose del Pianeta è superiore alla ricchezza di tutte le donne africane messe assieme. Ogni giorno, nel mondo, 10 mila persone muoiono, perché non sono in grado di accedere a cure mediche adeguate a causa della loro povertà. In 137 paesi ad economia instabile, un bambino povero ha il doppio delle probabilità di morire prima dei cinque anni rispetto a un coetaneo.

Tre strade per cambiare

Cause evidenti, che in questi tre decenni hanno fatto capire al movimento per la pace la necessità di percorrere strade più complesse, ma più efficaci. L’azione di protesta si è trasformata in azione di costruzione.
Come? Attraverso tre filoni operativi principali. Il primo è la formazione. Si sono moltiplicati gli interventi nella scuola di ogni ordine e grado, portando in dote racconti, testimonianze e approfondimenti sia su temi teorici – la conoscenza della dichiarazione dei diritti umani, la ricostruzione storica di eventi, i fondamenti della non violenza – sia su temi pratici, come le buone pratiche, il consumo consapevole, le scelte per lo sviluppo sostenibile. Negli ultimissimi anni ha assunto importanza il lavoro attorno all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, diventata un punto di riferimento operativo preciso.
Il secondo è l’informazione. Lo sviluppo della rete ha consentito di abbattere i costi e di creare buona informazione. Si sono moltiplicate le testate impegnate nel diffondere cultura della pace e nel dare notizie precise su ciò che accade nel Pianeta. L’informazione, poi, si è moltiplicata nelle occasioni pubbliche di incontro, almeno nei lunghi anni pre Covid–19, stimolando curiosità e interesse.
Infine, è il terzo filone, c’è stato il lavoro «pratico», creando gruppi, associazioni e Ong pronte a operare sul campo, sia intervenendo nelle emergenze e nella salvaguardia reale del diritto umanitario, sia operando nei territori per far crescere la cittadinanza consapevole, legando i principi del consumo responsabile, della crescita sostenibile, del rispetto dell’ambiente e dei diritti alla grande partita della costruzione quotidiana della pace.
Senza rendercene conto, oggi possiamo probabilmente contare su una rete operativa e consapevole molto più presente e solida di trent’anni fa. La nuova militanza si manifesta molto meno nella partecipazione alla protesta in piazza e molto di più nella piccola, ma diffusa e responsabile azione quotidiana.

L’Ucraina è un’eccezione

Un cambiamento importante. È bastato? Ovviamente no. La strada resta lunga e per molti aspetti inevitabilmente ambigua. Lo dimostra il dibattito acceso, a volte cattivo, attorno all’Ucraina e a ciò che dovremmo fare per aiutare un popolo aggredito da un oligarca criminale.
La guerra continua ad essere tollerata, giustificata, raccontata come inevitabile per liberare popoli e creare giustizia. È nelle pieghe di questa tolleranza che la guerra abita, anche nelle democrazie, continuando a prosperare. È per questa tolleranza che ogni anno nel mondo si spendono 2 mila miliardi di dollari in armi. È per queste convinzioni diffuse che la guerra ha cambiato pelle: dagli anni ’80 ad oggi, solo il 5% delle guerre combattute sul Pianeta è stato fra Stati nazionali. Quanto sta accadendo fra Russia e Ucraina è un’eccezione della storia recente e per questo mette ancora più paura. Oggi, nella stragrande maggioranza delle situazioni, a combattere sono gruppi, fazioni, eserciti rivoluzionari, gente che in qualche modo e per qualche ragione voleva arrivare al potere e al controllo delle risorse.
È cambiata la guerra, camminando parallela al cambiamento del mondo. L’indebolimento degli Stati nazionali ha portato alla fine degli scontri classici, della lotta per la conquista territoriale. Ora, i conflitti sono più in linea con un mondo sempre più globale, connesso e privo di confini netti. Sono tappe che hanno segnato l’evoluzione del movimento, lo hanno fatto diventare più concreto, più operativo. Probabilmente più capace, davvero, di «costruire la pace con la concretezza».
 
Raffaele Crocco è giornalista, ideatore e direttore responsabile dell’ Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, presidente dell’Associazione 46mo Parallelo e direttore di UniMondo.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Giugno 2022

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