L’inchiostro si è ormai asciugato sull’accordo politico raggiunto dal Parlamento europeo e dal Consiglio sulla futura Politica agricola comune (Pac). Un accordo che ha fatto molto discutere (e protestare) le organizzazioni ambientaliste. Da qualche mese la partita si è spostata nelle capitali dei paesi membri, dove è in corso un lavoro febbrile per dettagliare come verranno spesi i prossimi aiuti all’agricoltura.
La nuova Politica agricola comune copre infatti il periodo 2021-2027 e regolerà il modo in cui gli Stati dell’Unione europea potranno spendere i propri sussidi al settore primario.
Il piatto è ricco, perché si tratta di 387 miliardi di euro, circa un terzo del bilancio complessivo dell’Ue. Il modo in cui verranno spesi questi fondi giocherà un ruolo chiave nel raggiungimento, o nel fallimento, degli obiettivi del Green deal europeo, dato il contributo del settore agroalimentare alle emissioni di gas serra, al declino della biodiversità e all’inquinamento dell’aria e delle acque.
La base generale per il nuovo accordo politico sulla futura Pac è l’attribuzione di una maggiore flessibilità agli Stati membri nella scelta del modo con cui spendere i soldi. Spetterà ai singoli governi presentare un piano strategico alla Commissione europea, che dovrà dare il suo via libera. I piani dovranno rispondere ai dieci obiettivi della Pac, che coprono traguardi economici, ambientali e sociali e rappresentano una guida nella scrittura del documento.
Nella prima metà di quest’anno Bruxelles valuterà la qualità delle proposte, che per l’Italia stanno lasciando parecchio a desiderare. Il nostro paese, infatti, è in forte ritardo, così come molti altri in Europa, nel completamento del suo piano strategico.
E in questa fretta di concludere almeno una bozza sta comprimendo la partecipazione della società civile. Si rischia quindi di costruire su una base, quella dell’accordo europeo, già molto debole.
Un Green deal senza gambe
«La riforma della Pac fallisce le ambizioni per invertire i trend di perdita di biodiversità delle aree agricole» commenta Federica Luoni, esperta di conservazione per la Lipu e tra i portavoce della campagna #CambiamoAgricoltura. «L’assenza del recepimento dei target delle strategie Biodiversità e Farm to Fork rende questa Pac già obsoleta e non adeguata ad affrontare le crisi ambientali in atto».
Le grandi strategie europee per ridurre pesticidi e fertilizzanti, aumentare l’area coltivata in regime biologico e arrestare il declino della biodiversità restano infatti scollegate dalla nuova politica agricola, che avrebbe potuto rappresentare il principale strumento per metterle in pratica. La crisi Covid e la paura di perdere competitività hanno spinto le grandi lobby agroalimentari italiane ed europee a contrastare un cambio radicale della Pac, nel tentativo, riuscito, di mantenere le attuali rendite di posizione.
Gli attivisti di Fridays For Future, che insieme a numerose altre realtà ed esperti hanno lanciato una campagna lo scorso anno per chiedere il ritiro e la riscrittura della Pac, hanno reagito puntando il dito contro parlamentari europei e governi. «Ci avete delusi ancora una volta» hanno scritto in una lettera «votando a favore di uno sporco compromesso che non solo inficia la vostra promessa di rispettare l’accordo di Parigi, ma tradisce anche l’impegno che vi siete presi nei confronti della giustizia e della democrazia. Un compromesso che è stato raggiunto attraverso un accordo a porte chiuse, un compromesso che vi sforzate di far sembrare più green».
L’occasione persa
La Pac, infatti, varata nel Dopoguerra per sostenere la produzione europea con sussidi pubblici, ha preso da tempo una direzione pericolosa. Ha sostenuto grandi e grandissime aziende nella loro espansione, provocando la scomparsa dal mercato europeo di 4 milioni di agricoltori su 14 in soli dieci anni. Allo stesso tempo ha sostenuto la produzione di commodities da parte dei grandi produttori interessati all’export, causando competizione iniqua anche nei paesi in via di sviluppo. I sussidi della Pac hanno incentivato l’intensificazione della produzione, la standardizzazione del cibo, la concentrazione dell’allevamento e la crescita dell’impatto ambientale dell’agricoltura.
Le misure correttive non hanno funzionato: secondo un rapporto della Corte dei Conti Europea, i 100 miliardi destinati nell’ultima riforma (2014-2020) all’azione climatica non hanno prodotto effetti. La nuova Pac era l’occasione per lasciarsi questo modello alle spalle, ma sembra che i progressi fatti siano troppo deboli. Anche nella sua nuova impostazione, infatti, la politica agricola fallisce nel dare risposte ai movimenti per la giustizia climatica, che chiedono un passaggio all’agroecologia e ai piccoli produttori, che chiedono una redistribuzione degli aiuti per evitare il fallimento.
Gli eco-schemi, che dovrebbero condizionare parte dei fondi destinati al sostegno al reddito degli agricoltori all’adozione di pratiche agroecologiche, contengono flessibilità che gli attivisti temono possano sfociare in vero e proprio greenwashing. Per fare un esempio, potrebbero essere pagati gli allevatori senza richiedere loro di ridurre il numero di animali allevati, che pure sarebbe l’unica misura con impatto climatico e ambientale positivo in un paese nel quale la quasi totalità viene cresciuta in regime intensivo.
In pratica, un sostegno mascherato allo status quo.
Secondo Simona Savini, campaigner di Greenpeace, i fondi della Pac dovrebbero invece spingere il sistema alimentare verso «una graduale riduzione della produzione e del consumo di carne e latticini, che attualmente sono la principale causa degli impatti ambientali».
Robin Hood al contrario
Un’altra pratica ecologica che la Pac dovrebbe promuovere è la rotazione obbligatoria delle colture, che invece resterà volontaria. Ciò che secoli fa era considerato necessario per avere un terreno fertile e sano, come l’alternanza di diverse colture su uno stesso appezzamento, oggi è un ostacolo alla produttività garantita dalla monocoltura.
La sconfitta è anche economica: in questo momento, in Italia e in Europa, l’80% dei fondi Pac è intascato da appena il 20% delle aziende agricole, proporzione che non è destinata a cambiare molto con la nuova programmazione. A gran voce i piccoli contadini avevano chiesto un tetto ai pagamenti, in modo che il sostegno al reddito non eccedesse i 100 mila euro. Il cosiddetto capping avrebbe limitato la cupidigia delle grandi imprese e liberato risorse per la redistribuzione alle aziende di piccola e media scala, che invece dovranno accontentarsi dell’impegno a redistribuire loro appena il 10% di questi pagamenti diretti.
L’unico punto considerato positivo è l’introduzione di una condizionalità sociale, che dovrebbe portare al ritiro totale o parziale dei fondi Pac alle aziende che non rispettano i contratti di lavoro, si macchiano di sfruttamento e caporalato. Enrico Somaglia, segretario generale del sindacato agricolo europeo (Effat), l’ha definita una «ottima notizia per gli oltre dieci milioni di lavoratori impegnati in agricoltura in Europa, le cui condizioni non sono mai state prese in considerazione prima dalla Politica agricola comune».
La misura avrà successo se gli ispettorati del lavoro saranno assidui e indipendenti nelle loro verifiche. Cosa che però in molti stati europei sembra essere pura utopia.
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