Per la cannabis, il secolo buio è iniziato nel Dopoguerra e forse è finito un paio di anni fa. A una pianta che ha alle spalle cinque millenni di conoscenza per usi terapeutici e rituali, industriali e tessili, prima o poi doveva essere resa giustizia.
Dopo sessant’anni di demonizzazione, nel 2020 l’Onu ne ha riconosciuto il valore terapeutico, eliminandola dalla Tabella IV della Convenzione sugli stupefacenti del 1961, quella in cui sono comprese le sostanze altamente dannose e prive di valore medico. Oltre ad eliminare definitivamente lo stigma e il marchio infamante della comunità internazionale c’è stato il riconoscimento formale di proprietà terapeutiche riconosciute e messe nero su bianco da testi di ogni epoca.
In Europa l’uso medico è riconosciuto in dodici Stati, tra cui l’Italia. Il nuovo governo tedesco ne sta per autorizzare la commercializzazione anche per uso ludico in appositi negozi. Mentre negli Stati Uniti il suo impiego per usi ricreativi è legale in diciotto Stati e depenalizzato in altri tredici. Dal 2013 in Italia la cannabis ad uso terapeutico viene regolarmente prescritta e si può acquistare in farmacia. Ma su questa umile pianta esistono ancora diversi pregiudizi e dibattiti pubblici che dimostrano una certa arretratezza e titubanza del nostro paese.
Il 28 ottobre scorso la Corte di Cassazione ha ricevuto oltre 630 mila firme, raccolte in meno di una settimana, a sostegno di un
referendum sulla liberalizzazione della cannabis. Ma in Parlamento le forze conservatrici continuano a fare ostruzione a tutti i
tentativi di legalizzazione.
Conosciuta molto bene dai nostri nonni, soprattutto per l’uso tessile e industriale, la cannabis fa parte di un patrimonio comune e mostra una notevole capacità di adattamento a condizioni ambientali molto diverse. I vari incroci hanno portato a una grande varietà di ceppi ibridi, con caratteristiche uniche per ogni diverso genere.
È vero, per essere rigorosi dovremmo sempre distinguere l’uso terapeutico da quello ludico-ricreativo. Ma confusione regna nella stessa testa dei nostri governanti. Malgrado la comunità scientifica ne riconosca pregi e virtù, in Italia la cannabis rimane ancora un sorvegliato speciale, la cui coltivazione è affidata unicamente, pensate un po’, allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, a un paio di chilometri dalla nostra redazione.
Ma le cose stanno cambiando, è solo questione di tempo, perché a quanto pare stanno per uscire nuovi bandi per assegnare la coltivazione di cannabis terapeutica ad altri soggetti pubblici e privati.
La richiesta arriva dal mondo medico: nel 2021 è stato stimato un consumo di oltre 1400 kg di cannabis distribuita attraverso le farmacie, che però hanno scarsa disponibilità di prodotto, e le produzioni nazionali languono, perché sono ancora affidate a una sorta di monopolio. Lo stabilimento militare di Firenze è in grado di produrne circa 300 kg, il resto è tutto importato da Olanda e Canada.
Una pianta che funziona come noi
È proprio avvicinandoci con maggiore interesse scientifico alla cannabis che abbiamo imparato a conoscerci meglio. Sembra un paradosso, ma è proprio grazie allo studio di questa umile pianta che gli scienziati, all’inizio degli anni ’90, sono riusciti a decifrare il linguaggio primordiale che le nostre cellule utilizzano per comunicare.
La scoperta dei cannabinoidi, avvenuta negli anni ’90 del secolo scorso, ci ha permesso di ipotizzare una vera e propria risonanza tra le sostanze che il nostro corpo è capace di produrre in proprio e quelle disponibili nelle piante. I cannabinoidi, tra cui i più conosciuti sono il cannabidiolo (CBD) e il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), sarebbero infatti capaci di interagire con i ricettori di quello che viene chiamato sistema endocannabinoide.
Il sistema endocannabinoide è stato scoperto dal Dr. Raphael Mechoulam della Hebrew University Medical School in Israele. Isolando il THC dalla Cannabis sativa ha capito come il THC si lega ai recettori nel cervello. Questo lo ha aiutato a penetrare nella materia e a capire l’esistenza dei cannabinoidi all’interno del nostro corpo. Nel nostro organismo esistono molecole di segnalazione molto diffuse, che si legano agli stessi recettori che sono sensibili, guarda un po’, al THC e al CBD. Gli endocannabinoidi, simili ai cannabinoidi esogeni e chiamati anche cannabinoidi endogeni, sono molecole prodotte dal nostro corpo. I ricercatori esperti hanno identificato due endocannabinoidi chiave: l’anandamide (AEA) e il 2-arachidonoilglierolo (2-AG). Questi aiutano a mantenere le funzioni interne in equilibrio, secondo il principio dell’omeostasi. Il nostro corpo li produce secondo necessità, rendendo difficile sapere quali sono i livelli tipici per ciascuno.
Il CBD e il THC sono i cannabinoidi predominanti nella pianta, ma non sono gli unici, ed esercitano al meglio la loro funzione in sinergia con tutte le altre sostanze contenute nella cannabis come i terpeni e gli altri flavonoidi. Tuttavia, fino a oggi, gran parte della ricerca scientifica si è concentrata soprattutto sullo studio di queste due principali molecole e sul loro rapporto in terapia, ossia sulla cosiddetta ratio THC:CBD.
Nella cannabis, in realtà, sono presenti diverse molecole ritenute molto interessanti sul piano farmacologico: più di 100 cannabinoidi, oltre 200 terpeni, più di 20 flavonoidi, insieme ad acidi grassi, aminoacidi, alcoloidi, clorofilla e altre sostanze in quantità.
Solo una specie e diverse varietà
Spesso si tende a differenziare in modo netto, come specie distinte, la Canapa indica, utilizzata per scopi terapeutici o rituali soprattutto in oriente, dalla Canapa sativa, coltivata per mille altri scopi nel Mediterraneo fin dall’antichità. In realtà si tratta di una divisione strumentale e poco veritiera, che tende a bollare la cannabis come un qualcosa di esotico ed estraneo alla nostra cultura.
Se nel Settecento venivano considerate specie distinte, poiché appena scoperte e poco conosciute, oggi le diverse varietà vengono inglobate all’interno di un’unica specie, ovvero la Cannabis Sativa L.
Quando si parla di cannabis si fa riferimento sempre alla stessa pianta, la Cannabis sativa Linneus. Tuttavia, il proliferare di informazioni e applicazioni diverse ha fatto nascere anche nomi e diciture differenti come canapa, cannabis, erba, marijuana, ganja, canapa indiana.
A livello botanico si possono distinguere tre varietà o sottospecie (Cannabis sativa L. sativa, Cannabis sativa L. indica, Cannabis sativa L. ruderalis). Al di là delle apparenze non ci sono differenze sostanziali sul piano botanico, ma le diverse varietà e le diverse genetiche, correntemente indicate con il termine inglese strain determinano qualità differenti che le rendono adatte agli usi più specifici, tra cui quello che interessa più direttamente nel nostro contesto, che riguarda gli aspetti medici e farmacologici.
Per semplicità presentiamo una rudimentale classificazione in tre categorie in base alle diverse fonti di approvvigionamento e alle normative: la marijuana reperibile nel mercato illegale, la cannabis light e la cannabis terapeutica. Si tratta di una distinzione in gran parte formale, che sottende però a diverse caratteristiche, che riguardano soprattutto la concentrazione dei due diversi cannabinoidi.
Canapa: illegale, light o terapeutica?
Molte persone affette da patologie particolari come la fibromalgia o la sclerosi multipla traggono evidenti benefici dall’uso della cannabis e sono state spesso costrette a ricorrere al mercato illegale. Bisogna però dire che i coltivatori e i breeders internazionali negli anni hanno selezionato varietà a forte concentrazione di THC, eliminando quasi del tutto il CBD dal pool genetico della cannabis.
Il CBD è il cannabinoide che, oltre ad avere effetti terapeuci interessanti, ha la funzione di neutralizzare gli effetti psicoattivi del THC.
La marijuana commercializzata illegalmente, reperibile nei luoghi di spaccio, nel nostro Paese spesso presenta quantità di THC oltre il 20%, che configura la cannabis con un effetto psicotropo molto elevato, non sufficientemente bilanciato dall’altro cannabinoide più importante, il CBD.
Una pianta dall’enorme potenziale terapeutico è stata di fatto trasformata in una sostanza meno gestibile, con effetti più forti e poco bilanciati, anche se a questo aspetto non sfuggono nemmeno alcune varietà rese disponibili nelle farmacie.
Bisogna però dire che lo stesso THC di fatto rimane una sostanza molto interessante sul piano terapeutico.
Con cannabis light, o marijuana legale, ci si riferisce a tutte quelle infiorescenze regolamentate dalla legge 242/2016. Prodotta con sementi certificate, iscritte quindi in un apposito Registro Europeo, la cannabis light viene venduta nei numerosi shop che si sono diffusi in modo capillare nelle città italiane. Questo tipo di marijuana non è destinata all’uso medico, le infiorescenze sono classificate a uso tecnico, anche se poi vengono acquistate sia per usi ricreativi che nel fai da te terapeutico.
La canapa light non ha, purtroppo, un disciplinare né metodi regolamentati di produzione. La coltivazione e la rivendita possono potenzialmente esser fatte da un’azienda privata, a patto che si utilizzino semi certificati e che la quantità di THC non risulti superiore a 0,2% con una tolleranza che arriva allo 0,6%. Grazie alla presenza di CBD, sostanza sedativa e antinfiammatoria, e a un giusto bilanciamento di cannabinoidi e terpeni, la marijuana light potrebbe avere proprietà rilassanti ed effetti analgesici sui dolori cronici, ma l’assenza del THC potrebbe anche vanificarne l’uso per alcune patologie.
In ogni caso non può essere considerata un prodotto ad uso terapeutico e farmacologico, quantomeno sul piano formale.
Se è vero che la cannabis nel tempo è stata selezionata per le diverse esigenze, il ritorno a varietà più simili a quelle antiche potrebbe dare ottimi risultati sul piano della ricerca medica.
Come spiega Edoardo Alfinito, farmacista e vicepresidente della Società Italiana Canapa Medica «le genetiche di cannabis definite landrace, ovvero i fenotipi di cannabis antichi che si sviluppano naturalmente in territori ancestrali, come l’India, esprimono in netta maggioranza i due più importanti fitocannabinoidi fino a oggi studiati: il THC e il CBD. Nelle landrace vengono espressi generalmente in un rapporto paritario di equilibrio. Questi due cannabinoidi più conosciuti hanno dimostrato clinicamente di avere notevoli effetti farmacologici, anche se la prospettiva futura coinvolge anche altri cannabinoidi minori come il CBG (cannabigerolo), il CBC (cannabicromene), il CBN (cannabinolo), il THCV (tetraidrocannabivarina) e altri ancora».
La cannabis terapeutica
Qualsiasi pianta di canapa, almeno in teoria, potrebbe avere un qualche effetto curativo o positivo per la salute. La canapa riconosciuta come terapeutica in senso stretto però è quella registrata, dichiarata conforme e disponibile nelle farmacie. Essendo coltivata e trasformata per un uso medicinale è soggetta a determinate metodologie secondo precisi protocolli. Rispetto alla cannabis light cambiano le percentuali dei cannabinoidi contenuti nelle diverse infiorescenze, con una quantità di THC generalmente superiore a quella consentita per la canapa ad uso ”tecnico o da collezione”.
Nella cannabis a uso medico la percentuale di THC generalmente va dall’1% al 22%, a seconda delle varie formulazioni adatte ai singoli scopi terapeutici. Al pari di quella reperibile per uso ricreativo, la cannabis terapeutica, al momento attuale, non può ancora venir coltivata se non con autorizzazioni speciali, perché ha una concentrazione di THC superiore a quella consentita dalla legge. Quasi tutte le varietà di cannabis ad uso medico sono potenzialmente psicotrope, in quanto presentano alte quantità di THC. Di conseguenza ogni lotto viene controllato dal seme al prodotto finale, il quale viene poi distribuito alle farmacie.
Tuttavia, l’interesse farmacologico non si limita alla concentrazione dei due principali cannabinoidi, perché la pianta di cannabis è un fitocomplesso, caratterizzato dall’interazione di diverse molecole tra loro.
Le tipologie di marijuana terapeutica autorizzate per la coltivazione in Italia sono la Cannabis FM2 e la Cannabis FM1, prodotte, come già detto, a Firenze e distribuite alle farmacie per l’allestimento di preparazioni magistrali su prescrizione medica.
La prima possiede quantità di THC comprese tra il 5 e l’8% e CBD compreso tra il 7 e il 12%. La FM1 presenta invece THC decisamente elevato, tra il 13 e il 20%, e bassissimi contenuti di CBD (meno dell’1%).
Le quantità di prodotto disponibile in Italia non sono comunque sufficienti al fabbisogno dei pazienti, e la gran parte del prodotto proviene da Olanda e Canada.
La cannabis viene venduta, con ricetta medica, in alcune farmacie italiane galeniche, quelle che sono cioè abilitate a preparare farmaci e medicamenti a partire dalle droghe grezze. Per ogni paziente in trattamento, ci sono modalità di assunzione precise: per via orale, come decotto o sublinguale, come avviene per l’olio, o per via inalatoria mediante vaporizzatore. Le disposizioni regionali però impongono anche qui delle differenze e alcuni passaggi obbligati.
Un’indicazione tuttavia bisogna pur darla: tra i vari metodi di assunzione, il fumarla è sicuramente il metodo meno salutare e igienico, per via dei gas cancerogeni prodotti dalla combustione.
Come si fa a farsi prescrivere la cannabis
Il riferimento normativo che regola l’approvvigionamento e l’uso della cannabis a finalità terapeutica in Italia, lo ricordiamo, è la legge 172/2017, che ha disposto che le preparazioni magistrali a base di cannabis prescritte dal medico per la terapia contro il dolore, nonché per gli altri impieghi previsti, siano a carico del Servizio sanitario nazionale. Purtroppo non tutte le Regioni italiane hanno recepito e implementato la legge. E quindi oggi accade che alcuni pazienti possono avere la cannabis gratuita per tutta una serie di patologie, altri solo per qualcuna, e altri ancora per nessuna: dipende semplicemente dal luogo di residenza.
Nonostante sia previsto il rimborso del Servizio sanitario nazionale, in varie Regioni le preparazioni non sono rimborsate.
C’è anche un problema culturale di fondo. Nonostante la letteratura scientifica a favore delle terapie a base di cannabinoidi sia molto ampia, le difficoltà normative e burocratiche hanno generato nel tempo molta confusione in merito alla loro gestione.
Spesso i primi a fare confusione sono proprio gli operatori sanitari, coloro che invece potrebbero aiutare a fare chiarezza sulle potenzialità della cannabis terapeutica.
Veniamo ora alle modalità di accesso secondo lo schema istituito dalla legge. Il medico specialista o di medicina generale, in base alle direttive regionali, se lo ritiene opportuno, può prescrivere la sostanza e/o formulare un piano terapeutico. I pazienti in possesso di una ricetta potranno rivolgersi alle farmacie ospedaliere o territoriali in base al caso e alla regione.
Parlando di cannabis terapeutica a carico del sistema sanitario, si deve fare riferimento al Decreto Ministeriale del 9 novembre 2015, e ai diversi regolamenti regionali che ne disciplinano l’applicazione sul territorio. Infatti ogni regione recepisce le indicazioni del Decreto a modo proprio, eventualmente selezionando solo alcune delle indicazioni terapeutiche riportate. In generale comunque le patologie per cui la cannabis viene rimborsata sono sclerosi multipla, dolore oncologico e cronico, vomito e inappetenza da chemioterapici, cachessia, glaucoma e sindrome di Tourette.
Il medico può prescrivere la cannabis anche per altre patologie, facendo ricorso alla Legge Di Bella (L. 94/98) per cui “in singoli casi il medico può impiegare un medicinale, qualora ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con altri medicinali, purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. In questo caso l’acquisto del preparato sarà a carico del paziente. Anche se la legge per adesso ne riconosce formalmente soltanto alcuni campi di applicazione, questi ultimi sono davvero molto ampi per le proprietà antidolorifiche, antinfiammatorie, per l’effetto antitumorale e per la cura delle malattie neurodegenerative, per i malati di Alzheimer e Parkinson. Ma sappiamo che la lista potrebbe continuare.
Lasciamo che i ricercatori facciano il loro lavoro, e che i pazienti possano essere curati come vogliono, ovvero nel modo migliore.
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IL LIBRO
La scoperta del
sistema endocannabinoide nel corpo umano ha aperto le frontiere a
diverse applicazioni della cannabis e dei suoi preparati
in ambito terapeutico. E gli studi scientifici più recenti ampliano le prospettive di utilizzo di questa pianta millenaria
nella cura di numerosi disturbi tra cui dolore cronico, epilessia, artrite reumatoide, epatite, diabete, dermatiti, fibromialgia, Alzheimer, Parkinson e vari tipi di cancro. Questo è possibile perché nella cannabis sono presenti diverse molecole utili sul piano farmacologico: più di 100 cannabinoidi, oltre 200 terpeni, più di 20 flavonoidi, insieme ad acidi grassi, aminoacidi, alcaloidi, clorofilla e altre sostanze preziose.
In questo libro la Società Italiana Canapa Medica, società scientifica dedita ad attività di formazione professionale e ricerca, ha voluto raccogliere e presentare in modo chiaro ed esauriente tutte le informazioni utili per i pazienti consumatori di cannabis e i professionisti coinvolti nel circuito della sua coltivazione, preparazione, prescrizione e dispensazione.
Un valido strumento ad uso di pazienti bisognosi di cura e un supporto indispensabile per medici, veterinari e farmacisti sull’uso e la corretta formulazione dei preparati che oggi, anche in Italia, possono essere prescritti e che in alcuni casi si possono ottenere gratuitamente dietro presentazione di ricetta medica.
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