È necessario ripeterlo come un mantra, soprattutto in tempi come questi, in cui la pandemia ci ha mandato un messaggio molto chiaro: la natura ci dà tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma va amata e rispettata come una madre. Non c’è albero o fiore, coltura o seme da cui non si possano trarre alimenti, elementi e benefici in tanti settori e sotto diversi punti di vista, come abbiamo visto bene nel tessile. Il problema è che spesso l’intervento dell’uomo modifica e stravolge gli habitat e gli stessi prodotti ricavati sono lavorati con metodi e sostanze fortemente inquinanti.
Fortunatamente c’è sempre più attenzione e richiesta di materiali innovativi, che rispettano le fonti da cui sono ricavati e comportano un processo produttivo a basso impatto ambientale. Come la fibra di Kapok, ricavata dall’omonima pianta (Ceiba pentandra) appartenente alle Bombacaceae, famiglia di alberi tropicali diffusi in Sud America, Asia, Africa e Oceania. Albero maestoso e massiccio, il Kapok raggiunge circa i 60-70 metri e veniva considerato sacro dai Maya, perché credevano che la sua altezza permettesse alle anime dei morti, attraverso i rami, di raggiungere il cielo. Poetico, vero?
La pianta produce dei frutti contenenti numerosi semi circondati da una fibra lanosa e giallastra costituita da cellulosa e lignina, chiamata anche «lana vegetale», che viene utilizzata, ad esempio, per le imbottiture nell’arredamento e, dato che galleggia ed è resistente all’acqua, anche per dispositivi di galleggiamento. Per le sue caratteristiche lucenti e setose viene usata anche nel settore dell’abbigliamento, in particolare nella moda eco, dove sta prendendo sempre più piede, insieme ad altre fibre, come quelle di cocco e legno; la prima si ricava dal mesocarpo della noce di cocco, che è la parte che separa il frutto interno più carnoso dal mallo, mentre quella di legno, in particolare del faggio, è una fibra morbida e luminosa che riunisce in sé le caratteristiche del lino e della seta.
Vediamo più da vicino gli usi di questi materiali naturali che si stanno ritagliando un loro posto negli eco-tessuti di nuova generazione.
Il Kapok, la fibra sacra
Come dicevamo poc’anzi, il Kapok è un albero imponente e robusto e la sua particolare superficie aculeata costituisce una protezione naturale da qualsiasi eventuale tipo di attacco esterno; così, nella sua straordinaria autosufficienza, non richiede alcun intervento umano durante la coltivazione, e ciò permette di evitare anche l’uso di sostanze chimiche, solitamente tanto abusate nel settore. La fibra estratta dal frutto è cava e composta per l’80% circa di aria, per questa ragione è leggerissima e adatta, ad esempio, per le imbottiture isolanti che, naturalmente traspiranti, impediscono l’insorgere di muffe o il proliferare di batteri, perché il prodotto risulta sempre asciutto. Contemporaneamente questa fibra è resistente agli acari ed è considerata ipoallergenica.
Per queste sue caratteristiche si è rivelata adatta anche per l’abbigliamento, anche se, per ora, non è ancora possibile utilizzare la fibra al 100%, ma sempre in mischia; con il cotone può generare un prodotto altamente sostenibile e permettere così di risparmiare ingenti quantità di risorse, in particolare di acqua. Infatti, come dichiara l’associazione Rén collective, organizzazione non-profit torinese dedita alla transizione del sistema moda verso un futuro più etico e sostenibile, «se a un chilo di cotone, necessario per realizzare quattro t-shirt, si sostituisse il 30% di Kapok, verrebbero risparmiati ben 3 mila litri di acqua, equivalenti a 15 vasche da bagno piene!».
Lo conferma anche Elena Prestigiovanni, fondatrice di Good Sustainable Mood, uno dei primi concept store italiani totalmente dedicati alla moda etica. Tra i suoi prodotti di punta ci sono le t-shirt in fibra di Kapok mista a cotone organico, entrambi certificati.
Una cosa importante, quest’ultima, perché così vengono tutelati i lavoratori e la qualità della materia prima. Per questo i prodotti devono sempre riportare le certificazioni di fibra biologica, ad esempio la Gots (Global organic textile standard) e la Oeko-Tex, che garantisce la provenienza da una filiera trasparente e sostenibile.
Una delle fibre di Kapok più sostenibile è prodotta da Flocus, marchio tessile con sede a Shangai, che negli ultimi anni ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui quello di Peta, nel 2016, proprio per il tipo di prodotto: innovativo, ecologico, vegano e di qualità. Le caratteristiche di Flocus sono innumerevoli; è soffice al tatto, leggera, termoregolatrice, impermeabile, anti-batterica, anti-umidità, consigliata per chi soffre di allergie, bio-degradabile e riciclabile al 100%. Ultima cosa, ma non meno importante, garantisce una filiera trasparente in tutte le fasi, dalla raccolta del frutto alla sua lavorazione, offrendo condizioni eque e dignitose ai lavoratori coinvolti, il tutto certificato.
La fibra di legno e quella di «cocco bello»
Restando nel mondo degli alberi, ecco un’altra fibra morbida e luminosa che, una volta tradotta in tessuto, riesce a conciliare sostenibilità, qualità e resistenza. La fibra di legno si ricava dalla polpa del legno di faggio, a sua volta proveniente da foreste certificate e gestite responsabilmente. Una delle fibre di legno più sostenibili oggi sul mercato mondiale è Ecovero™, della compagnia austriaca Lenzing, molto impegnata in una produzione responsabile a partire dall’approvvigionamento della materia prima, che proviene appunto da foreste certificate europee, nordamericane e sudafricane. Lo stesso processo che porta alla produzione della fibra segue un sistema a ciclo chiuso, con le componenti chimiche utilizzate per la trasformazione da polpa a fibra destinate all’industria alimentare, come lo xylan, che diventa poi xilitolo per i chewing gum.
Sono diversi i marchi che utilizzano Ecovero™ per i propri prodotti, da Esprit a J. Crew, da Armedangels a Monsoon e anche Good Sustainable Mood, la startup di cui abbiamo parlato prima, che annovera tra i propri capi anche le maglie fatte con la fibra di legno della Lenzing.
Elena Prestigiovanni ne conferma la qualità, sottolineandone la capacità di termoregolazione, che garantisce calore d’inverno e freschezza d’estate, e di traspirazione, che permette di assorbire l’umidità molto meglio del cotone. Rispetto a quet’ultimo, inoltre, è più resistente, anche dopo diversi lavaggi.
Dal mesocarpo della noce di cocco, cioè dal suo rivestimento, si ottiene invece la fibra omonima; pressata, trinciata, macerata, la buccia, dal caratteristico aspetto legnoso, diventa un materiale resistente e traspirante adatto per diversi campi d’applicazione, dall’edilizia all’arredamento, all’abbigliamento. Sicuramente meno morbida delle altre fibre qui citate, è anche conosciuta come coir.
La fibra di cocco ha già trovato impiego per la realizzazione delle suole delle scarpe, perché una volta lavorata diventa impermeabile all’acqua pur restando traspirante e ha inoltre una grande capacità di assorbire la pressione della camminata mantenendo la propria forma originaria.
La startup australiana Nanollose ha realizzato un materiale, il Nullarbor, dagli scarti della lavorazione del cocco lasciati fermentare, in un processo che richiede meno di un mese e poca terra, acqua ed energia. I capi realizzati con questa fibra sono risultati morbidi e caldi, con caratteristiche molto simili alla viscosa. La Nanollose sta lavorando anche a un altro materiale chiamato Jelli Grow, sempre ricavato da scarti vegetali.
E, forse, ne parleremo la prossima volta.
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