Mentre l’Oms afferma di non approvare l’obbligo vaccinale per il Covid e che non dovrebbe essere la prima scelta, il British Medical Journal pubblica un articolo in cui sostiene che la mancata trasparenza dei dati sulle sperimentazioni dei vaccini Covid ha prodotto decisioni senza dati. Affermazioni importanti sulle quali vale la pena riflettere.
L’Organizzazione Mondiale della Sanita’ non approva che la vaccinazione contro il Covid-19 sia obbligatoria in nessun paese, anche se difende l’importanza dell’immunizzazione. Lo ha detto una portavoce dell’agenzia (come si legge in un lancio dell’agenzia di stampa AGI del 13 agosto) in risposta al fatto che diversi paesi stanno considerando di renderla obbligatoria.
La portavoce dell’Oms Fadela Chaib in conferenza stampa ha poi aggiunto che questi vaccini sono solo “uno dei diversi strumenti che abbiamo nelle nostre mani” per combattere la pandemia di Covid-19.
E, come riporta l’
AdnKronos,
l’obbligo vaccinale “non dovrebbe essere la prima scelta”.
Eppure «la trasparenza dei dati è un requisito essenziale perché le conclusioni siano verificabili»
spiega l’associazione Assis, Studi e Informazione sulla Salute.
E su questo importante tema Assis aggiunge:
«La trasparenza dei dati è una norma consolidata nella ricerca biomedica ed è particolarmente importante per interventi di sanità pubblica ampiamente diffusi come i vaccini COVID-19;
Le sperimentazioni sui vaccini COVID-19 hanno ricevuto lauti finanziamenti pubblici ed i contribuenti dovrebbero avere il diritto di accedere ai risultati;
C’è una disponibilità inadeguata di documenti e dati sulla sperimentazione dei vaccini COVID-19; alcune informazioni non saranno disponibili per mesi, o anni, per la maggior parte dei vaccini;
L’adozione di interventi pubblici senza la piena trasparenza dei dati solleva preoccupazioni sull’uso razionale dei vaccini COVID-19;
La trasparenza deve essere immediata e continua. I protocolli di studio dovrebbero essere resi pubblici prima della pubblicazione dei risultati, e dovrebbero essere accompagnati da documenti e dati prima che siano adottate decisioni in merito all’utilizzazione del prodotto oggetto di sperimentazione».
Capocchi richiama i dati pubblicati dai ricercatori Pfizer-BioNTech nel marzo 2021 sull’efficacia dell’omonimo vaccino, che mostravano un declino della protezione nei primi 4-6 mesi di somministrazione, secondo i dati provenienti da uno studio iniziato nel luglio 2020 che inizialmente si prevedeva dovesse durare fino al 2023.
«Secondo la comunità scientifica, solo questi studi “randomizzati e controllati” permettono di stabilire se un farmaco o un vaccino è davvero efficace e rappresentano la bussola su cui pianificare eventuali campagne vaccinali di richiamo e le relative tempistiche» si legge nell’articolo.
Ma, «come scrivono le stesse aziende, lo studio “randomizzato e controllato” si concluderà anzitempo e questi saranno gli ultimi dati affidabili sulla durata dell’immunità. Dei 44 mila partecipanti, la gran parte ha scelto di conoscere il proprio status di vaccinazione, ed eventualmente vaccinarsi secondo le regole stabilite localmente dai Paesi in cui si è svolto lo studio. I dati relativi alla copertura a sei mesi di distanza dalla vaccinazione riguardano solo il 7% dei partecipanti iniziali, e ormai la percentuale di volontari ancora arruolati nello studio in doppio cieco è vicina allo zero» scrive ancora Il Manifesto.
«Pfizer e BioNTech giustificano la conclusione anticipata dello studio con “la necessità etica e pratica di immunizzare chi aveva ricevuto il placebo in base all’autorizzazione all’uso di emergenza e alle raccomandazioni delle autorità di sanità pubblica”. In altre parole: sarebbe antietico negare un vaccino disponibile mettendo a rischio la vita di migliaia di volontari per sole ragioni di ricerca – prosegue l’articolo – Nel dicembre del 2020, durante il processo di autorizzazione di emergenza, la Food and Drug Administration (l’agenzia regolatoria statunitense) aveva chiesto all’azienda di prolungare lo studio randomizzato salvaguardando allo stesso tempo la tutela dei partecipanti con l’adozione della strategia di cross-over: ottenuta l’autorizzazione, chi inizialmente era nel gruppo placebo sarebbe stato vaccinato, e a chi aveva ricevuto il vaccino sarebbe stato somministrato il placebo, senza svelare gli status dei due gruppi. In questo modo, tutti sarebbero stati vaccinati, il rigore scientifico sarebbe stato preservato ma esaminando la differenza di protezione nei due gruppi si sarebbe potuta misurare la durata dell’immunità».
Ma «l’azienda aveva rifiutato di adeguarsi alla richiesta dell’agenzia regolatoria. E anche Moderna aveva comunicato la stessa indisponibilità, ritenuta “troppo onerosa” dal punto di vista organizzativo. Le aziende si erano tuttavia impegnate a spingere i volontari a non abbandonare lo studio. 18 esperti, tra cui uno della Fda, avevano scritto un appello in cui l’ipotesi di fermare il trial dopo soli sei mesi era ritenuta “disastrosa”. Secondo un altro
articolo sul
New England Journal of Medicine firmato dalla task force vaccinale dell’Oms “l’opportunità di ottenere evidenze affidabili sugli effetti a lungo termine verrebbero cancellate da una vaccinazione immediata dei partecipanti e dalla rivelazione del loro status di vaccinati o meno”. Come poi hanno rivelato i volontari in numerose testimonianze, nonostante le promesse pubbliche le aziende avevano già proposto ai volontari di abbandonare il gruppo del placebo per ricevere il vaccino, sabotando le loro stesse ricerche».
Scrive ancora Capocci: «La Pfizer ora promette di continuare a monitorare i partecipanti anche in questa fase. “L’osservazione dei partecipanti per due anni all’interno dello studio, insieme ai dati sull’efficacia provenienti dalla campagna vaccinale, stabiliranno il beneficio di un richiamo dopo un periodo più lungo”. Ma si tratta di dati spuri, raccolti in modo meno rigoroso, senza doppio cieco e quindi maggiormente esposti a distorsioni. Sapere di essere vaccinati da poco o da diversi mesi, per un vaccino di cui si conosce un calo di protezione, può indurre a tenere comportamenti diversi e a influenzare l’esposizione al rischio tra un gruppo e l’altro, ad esempio. Per avere evidenze solide dai dati delle campagne vaccinali serviranno tempi più lunghi, perdendo il vantaggio acquisito da studi clinici partiti già un anno fa. Le decisioni politiche sulla terza dose però devono essere fatte in questi mesi, e non potranno aspettare più di tanto. Senza dati raccolti in maniera rigorosa, la necessità di un richiamo sarà affidata a scelte più influenzabili da fattori emotivi e suggestioni collettive. Di questa incertezza sulla reale efficacia del vaccino approfitteranno le aziende, che ai propri investitori hanno già parlato della terza dose come di una “opportunità significativa” per alzare il prezzo del prodotto. Gli effetti sono già visibili. In Israele, la somministrazione della terza dose è già iniziata. L’Unione europea ha prenotato 900 milioni di dosi per i richiami del 2022 (più un’opzione di pari valore). Al prezzo di 19,5 euro a dose, noto solo grazie a indiscrezioni visto che i contratti sono segreti, si tratterebbe di quasi 20 miliardi di euro: un incasso gigantesco, che da solo vale oltre la metà dell’intero ricavo dell’azienda nel 2020 (35 miliardi di euro)».
«In teoria, le agenzie regolatorie avrebbero i mezzi per opporsi a queste strategie che hanno più a che fare con il marketing che con la scienza. Le linee-guida della FDA prevedono testualmente che “la FDA non ritiene che la disponibilità di un vaccino anti-Covid19 in base a un’autorizzazione di emergenza rappresentino una ragione sufficiente per fermare la prosecuzione in doppio cieco di uno studio clinico in corso”. Perciò l’agenzia potrebbe, almeno sulla carta, revocare l’autorizzazione per la violazione delle norme da parte delle aziende».
Come si legge ancora nell’articolo, «
In tempo di emergenza le aziende hanno il coltello dalla parte del manico e sanno approfittarne. La casa farmaceutica Gilead, ad esempio, ha ottenuto un’autorizzazione per l’antivirale sperimentale remdesivir dopo un trial su pochi pazienti svolto durante la prima ondata di Covid negli Usa e interrotto anzitempo quando i risultati preliminari si erano dimostrati positivi. Uno studio più ampio svolto dall’Oms ha dimostrato poi che il remdesivir è sostanzialmente
inefficace. Ma ormai gli ordinativi del remdesivir sono saliti alle stelle. Il farmaco ha fruttato oltre due miliardi di dollari di ricavi nel 2020, spingendo i ricavi dell’azienda a oltre 24 miliardi di dollari per il 2020. Secondo gli analisti, anche il bilancio 2021 dovrebbe condurre a risultati simili. È quello che avviene quando lo sviluppo farmaceutico è integralmente subappaltato alle aziende private, che dalle ricerche fino ai brevetti hanno conquistato il potere di imporre ai governi le regole più vantaggiose per sé».