«I decisori politici e sanitari ci informano che quanto hanno messo e stanno mettendo in atto in quest’era Covid, dalle restrizioni alle chiusure, dagli obblighi allo stato di emergenza costante, è finalizzato alla “sicurezza”, tanto che la formula “in sicurezza” è diventata una sorta di mantra. Ma fino a che punto è lecito spingersi? Quale lo scopo finale effettivo? Quali i limiti oltre i quali viene sacrificata la vita in modo non più accettabile?».
A porsi molti interrogativi in questo ultimo lunghissimo anno e mezzo di emergenza totale è stato ed è il dottor Riccardo Ortolani, dirigente medico ospedaliero a Verona, specializzato in allergologia e immunologia clinica, associato alla Rete Sostenibilità e Salute, ma soprattutto persona dotata di grande sensibilità e da tempo impegnata sul fronte dell’umanizzazione della medicina.
Medico e uomo che vuole parlare alla gente comune, «perché è lì che si avverte la crisi più profonda di identità e di valori che ci sta conducendo ad accettare tutto ciò che accade senza conservare la capacità di porci domande, le domande più “vere”, più “nude”, quelle scomode ma necessarie. Solo così possiamo sperare di intuire e di trovare le vere risposte». Allora, esorta Ortolani in questa riflessione a tutto tondo, «dobbiamo andare a fondo della questione, chiarire lo scopo ultimo delle scelte, capire dove sono i limiti di ciò che si può imporre. Invito a recuperare la consapevolezza che la sicurezza deve essere funzionale a migliorare la qualità della vita, al bene dell’uomo, non può essere lo scopo ultimo, soprattutto se per ottenere più sicurezza si devono usare strumenti invasivi o trattamenti farmacologici che hanno la capacità di compromettere lo scopo stesso della sicurezza, appunto salute e benessere. Per esempio, non posso dire a un bambino di chiudersi in casa e privarsi di ogni esperienza perché così sarà più al sicuro; se lo facessi gli impedirei di vivere. Potrò dirgli di fare attenzione, fornirgli strumenti di conoscenza, infondergli fiducia in se stesso e nella bontà e necessità delle relazioni con gli altri. Ma non posso imprigionarlo né costringerlo a evitare le relazioni con l’ambiente e con le persone, sarebbe assurdo. Questo vale per noi tutti: non si può rinunciare a vivere, abbiamo bisogno di un approccio che tenga conto dei diversi fattori. E per trovare l’approccio migliore occorre praticare il confronto vero tra posizioni e riflessioni anche molto diverse, per porsi le domande giuste e trovare risposte equilibrate e appropriate. Se si escludono a priori determinate posizioni o argomentazioni, ecco che si devia, si distorce, si manipola e non si cerca (dunque, non si trova) la “verità”. Se deleghiamo tutto di noi stessi a chi compie questo processo, allora scegliamo di obbedire ciecamente, di non verificare, rischiando di sacrificare esigenze fondamentali; con il pericolo di arrivare persino al punto di pretendere che anche gli altri rinuncino al loro diritto/dovere di verificare se le scelte proposte o imposte sono veramente per il bene di ogni singola persona».
La paura
Paura e rabbia sono le due emozioni con cui si è più convissuto nell’ultimo anno e mezzo. E se ne vedono gli effetti sociali, antropologici, relazionali, emotivi, psicologici.
«Voglio partire proprio dalla paura: che cosa la fa nascere in noi? Sicuramente il timore di perdere la nostra vita, la nostra salute, la vita e la salute delle persone care, perdere ciò che ci sta più a cuore e ciò di cui abbiamo più bisogno. Ma dobbiamo essere coscienti che la nostra natura, pur così meravigliosa è, al tempo stesso, vulnerabile, precaria e temporanea; se lo dimentichiamo rischiamo di accettare promesse e scelte abnormi fatte in nostro nome. Certo, l’esercizio della ragione ci ha consentito di ridurre la nostra fragilità e di sviluppare tecnologie utili a vivere meglio; ma possiamo forse dimenticare di essere umani, fragili, mortali? Inoltre, non possiamo (e non dobbiamo) soffocare ciò verso cui la coscienza ci porta, cioè la ricerca della felicità, di un’esistenza piena e che ci realizzi. Se accettiamo di farlo in nome della paura soggiogante, allora ci limiteremo, se va bene, a sopravvivere. È questo ciò che vogliamo? Vivere significa tenere vivo il desiderio più profondo dentro tutta la nostra fragilità. È proprio questa differenza di potenziale che ci muove, che ci fa aver bisogno delle relazioni umane e con l’ambiente, che ci “costringe” a cambiare e ci fa crescere».
L’analisi legata all’attualità
Il dottor Ortolani invita poi a riflettere in modo obiettivo su ciò che è accaduto e sta accadendo in relazione all’emergenza del momento, la pandemia da Covid-19. «Come abbiamo affrontato questo nuovo virus e questa nuova malattia che ci ha colto alla sprovvista? Come abbiamo usato la ragione? In una primissima fase la paura può anche essere la reazione più comprensibile, ma con il tempo è fondamentale la ricerca della conoscenza degli elementi in gioco. Il primo passo della ragione è la conoscenza: conoscere il più possibile la realtà nuova, attingendo a tutti gli approcci conoscitivi disponibili, coinvolgendo tutti coloro che possono dare un apporto, creando una rete di relazioni. Se è la conoscenza il reale interesse, non c’è motivo alcuno di lasciar fuori certe posizioni o risorse. Se vengono lasciate fuori, allora non si sta cercando di conoscere ciò che abbiamo di fronte. Chiediamoci dunque: è stato cercato e favorito un vero e serio confronto nel mondo scientifico per considerare e discutere senza pregiudizi le migliori strade da percorrere?
Ci si è forse chiesti, considerando le conoscenze della biologia e le dinamiche complesse delle relazioni con i microrganismi, quali fossero le modalità migliori per affrontare questo nuovo virus? Si è cercato di tenere conto di tutti i fattori in gioco? Si è approfondito, con un’analisi attenta e dettagliata, quali fossero le persone più vulnerabili alle forme gravi della malattia e perché? Sono state cercate, valorizzate e ottimizzate le cure per evitare la progressione della malattia in forme gravi?».
Biologia ed equilibri
«Ciò che la medicina da diversi anni ha poco considerato è che l’essere umano, per vivere in salute e in equilibrio, ha bisogno di trovare principalmente una modalità armonica di convivenza con il mondo esterno, compresi i microrganismi in cui siamo immersi» prosegue Ortolani. «Ma se ci poniamo nell’ottica di eliminare, combattere, cancellare dalla faccia della Terra alcuni microrganismi che compaiono o sono presenti nel nostro ambiente, il costo biologico dei mezzi per ottenere ciò può essere altissimo e controproducente. Accanirsi su questo obiettivo a qualunque costo può avere, e di solito ha, pesanti ripercussioni sulla salute umana. Basti pensare all’esplosivo e tragico fenomeno della multiresistenza dei batteri agli antibiotici, causato principalmente da un uso generalizzato e abnorme di tali farmaci».
Dunque, secondo Ortolani ciò verso cui bisogna tendere, e lo si dovrebbe perseguire anche attraverso le decisioni che si prendono e le pratiche che si introducono, «è una inversione di rotta, smettendo di perseguire ossessivamente l’obiettivo di avere un ambiente “sterile”, favorendo invece un equilibrio vantaggioso in un ambiente ricco di microrganismi.
Ciò significa e implica aumentare le conoscenze della complessità delle relazioni e delle loro dinamiche, prendendo atto del fatto che si trae maggior vantaggio nel rispettare la varietà e nel favorire la convivenza e l’inclusione».
Medicina e cura
«Abbiamo bisogno di promuovere una medicina che desideri conoscere la singola persona, con la sua storia unica, fatta di aspetti peculiari ma anche di somiglianze con le altre persone» prosegue Ortolani. «Per farlo è giusto usare le notevoli potenzialità degli esami di laboratorio e delle indagini strumentali per poi suggerire le azioni possibili di prevenzione e riequilibrio. Se necessario si agisce, ma con interventi che, considerando più fattori possibili, siano personalizzati e non generalizzati. Abbiamo bisogno di promuovere una medicina che abbia come scopo prioritario il vero bene del singolo, nella consapevolezza che è anche e sempre un bene per tutti. Sono molte le evidenze, anche a livello biologico, che ci dimostrano come il bene del singolo, se ricercato in verità, non può essere in opposizione a quello della comunità. Su questo punto, importante e centrale, auspicherei che si aprisse un serio e sincero confronto sia a livello scientifico che filosofico».
Forzare la realtà significa accanimento
La soluzione a un problema non può non tenere conto della natura e della struttura della realtà, dice ancora Ortolani. «Siamo immersi in una varietà impressionante di forme di vita, in una molteplicità di modalità di relazione, espressioni di una grande “libertà” anche a livello biologico; pur dentro i limiti precisi delle leggi della biologia. Se questa è la natura della realtà, come possiamo pensare che la soluzione a un problema medico possa ignorare e sopprimere questa pluralità? Che possa essere una soluzione generalizzata, uguale per tutti, ridotta a un unico e determinato modello? Che possa essere una totale omologazione senza differenziazioni? E quando la pratica standardizzata non dovesse funzionare, se ne riconosceranno i limiti e le forzature oppure si dirà che il fallimento è da addebitare a coloro che, non condividendo questo approccio, hanno seguito la strada della complessità?».
No, dunque, a forzare la realtà oltre i limiti del rispetto della natura umana, prosegue Ortolani, «perché questo significa accanimento, significa agire all’eccesso in nome di una sicurezza astratta e assolutizzata finendo poi per generare situazioni controproducenti, che sacrificano aspetti fondamentali della vita senza i quali non c’è vera salute né benessere».
«Sta emergendo la perdita di consapevolezza del limite, vedo prevalere l’illusione che sia tutto possibile e che si possano superare tutti i confini. E non credo che questo sia un bene. Bisogna richiamarsi continuamente allo scopo, è più che mai urgente e necessario avviare un confronto a livello sociale e scientifico con tutte le posizioni rappresentate nei diversi ambiti, per recuperare una dimensione umana della salute, per recuperare ciò che è realmente importante nella vita. Bisogna ricercare una relazione sincera tra operatore sanitario, malato, malattia, vita, salute, società. Il nuovo virus che oggi abbiamo di fronte, sia come entità in sé che, soprattutto, per la modalità con cui è stato in generale affrontato, ha messo a nudo una crisi antropologica, culturale e di identità che era già presente da molto tempo e che si trascinava. Potremmo anche riporre tutta la nostra fiducia in un certo concetto di scienza, pensando che sarà quella a soddisfare tutti i nostri bisogni, ma i fatti e la realtà ci dicono che la scienza e la tecnologia hanno dei limiti, grandissimi limiti. E se ripartissimo cercando la verità della natura umana? Ci sarebbe utile per contrastare la deriva?».
«Prima o poi, ciascuno di noi dovrà porsi domande sul metodo con cui affrontare le sfide della vita».
_________________________________________________________________________________________________________________________________
SFOGLIA UN’ANTEPRIMA DELLA RIVISTA