Il 22 gennaio 2021 è entrato in vigore il Treaty on the prohibition of nuclear weapons (Trattato di proibizione delle armi nucleari-Tpan): una battaglia che la società civile pacifista porta avanti da decenni, in particolare con la campagna Ican (International campaign to abolish nuclear weapons) che ha vinto il Nobel per la pace. Si tratta di un traguardo importante: il trattato, infatti, dichiara le armi nucleari illegali ed immorali e ne vieta il possesso, la produzione, la vendita, il trasporto.
Il tema degli armamenti nucleari, certamente ridotti dai tempi della guerra ma non per questo meno in grado di distruggere il pianeta centinaia di volte, è abbastanza trascurato e l’attenzione quasi nulla dei media mainstream in seguito all’approvazione del trattato ne è una riprova. Il tema del nucleare civile è invece più dibattuto, soprattutto alla luce della campagna che cerca di dare una patente «ecologica» a questo tipo di energia.
Intorno a questi due temi centrali ruotano problemi «minori», come quello delle armi ad uranio impoverito, recentemente salito agli onori della cronaca italiana per la chiusura del dossier sulle sorti dei nostri militari contaminati dalle bombe all’uranio, o quello degli usi medici della radioattività.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su ognuno di questi temi.
Arsenali nucleari
Partiamo dagli interessi in gioco. Il termine della Guerra Fredda sembrava aver messo fine alla giustificazione geopolitica dell’esistenza di armi di tale potenza: senza nemico, la deterrenza perde di senso. Ican ha pubblicato, insieme a Pax, un dossier sulle industrie che sono coinvolte direttamente nella tecnologia nucleare, tra cui ci tocca segnalare anche un’azienda italiana, Leonardo1. Un altro aspetto su cui Ican ha lavorato con la campagna «Don’t bank on the bomb»2 è quello del coinvolgimento delle banche nel finanziamento della tecnologia nucleare militare. Quindi, interessi industriali, bancari e speculativi sono l’asse su cui ruota il mantenimento di un arsenale altamente pericoloso.
Ghedi ed Aviano
Finalmente, dopo tantissimo tempo in cui non c’erano altro che congetture e deduzioni, ora sappiamo per certo che nelle nostre basi militari di Ghedi e di Aviano sono stoccate un certo numero di bombe nucleari. Sappiamo anche che tali bombe sono probabilmente contate nel piano di ammodernamento USA dell’arsenale nucleare e saranno probabilmente sostituite con le nuove B61-12. Un recente sondaggio Ipsos-Greenpeace Italia ha rilevato che l’80% degli intervistati è contrario ad ospitare le bombe atomiche americane e ad avere cacciabombardieri in grado di utilizzarle3. Ovviamente, il cacciabombardiere in questione è l’F35 che stiamo comprando in barba all’articolo 11 della Costituzione, alle campagne pacifiste e alle stesse dichiarazioni, per esempio del Movimento 5 Stelle, ora al governo, ma per anni in prima linea nella campagna per non comprare quegli aerei.
Incidenti nucleari
Il caso di Stanislav Petrov, nel campo del rischio di lancio di ordigni nucleari, è ormai arrivato al grande pubblico: Petrov fece verifiche supplementari non previste di fronte all’apparente informazione che una serie di missili con testata nucleare stava per colpire l’Unione Sovietica. Sono ugualmente di dominio pubblico gli incidenti più gravi alle centrali nucleari: Three Mile Island, Chernobyl, Fukushima. Quello che è meno noto è che sia gli incidenti legati alle bombe che quelli delle centrali sono molti di più4. Sempre più conosciute sono poi le conseguenze a lungo termine dei test nucleari: dall’alterazione radicale di ecosistemi fino alle conseguenze dirette sugli esseri viventi.
L’orologio dell’apocalisse
Dal 1947 il Bulletin of the Atomic Scientists5 monitora la gravità del rischio di una guerra nucleare, mediante il simbolico Doomsday Clock («Orologio dell’Apocalisse»). Dal 20 gennaio 2020 la lancetta è stata spostata in avanti fino a un minuto e quaranta secondi alla mezzanotte: solo in piena guerra fredda la lancetta è arrivata più vicina. Al di là dei calcoli che fanno gli scienziati del Bulletin, è evidente che il nucleare sia un rischio generale per l’umanità, un rischio che va risolto insieme, con una visione condivisa del pianeta e della specie umana. Qualcuno crede che il lancio o l’esplosione per errore di una singola bomba nucleare potrebbe produrre un danno contenuto, ma questa visione, oltre che cinica, è assolutamente irrealistica: abbiamo da tempo compreso che il pianeta è una realtà complessa e con un delicato equilibro di inter-relazioni. Inoltre sappiamo che già nelle condizioni attuali l’ecosistema è prossimo all’inabitabilità per la specie umana: un’esplosione nucleare anche singola e circoscritta (il caso meno grave) avrebbe comunque conseguenze catastrofiche che si ripercuoterebbero molto lontano dal luogo dell’impatto.
Il nuovo Trattato
Il Trattato di proibizione delle armi nucleari6 promulgato il 7 luglio 2017 presso le Nazioni Unite ed appena entrato in vigore è sicuramente la novità più significativa nel campo dell’abolizione delle armi nucleari. Sino ad oggi hanno aderito 132 Stati, dei quali 85 l’hanno firmato e 51 l’hanno anche ratificato. Il trattato è stato osteggiato dalle potenze nucleari e dalla Nato. Gli Stati Uniti, con minacce dirette agli Stati promotori e firmatari, sono stati in prima linea, cosa che non stupisce se si dà un occhio al già citato rapporto Ican che elenca le industrie direttamente implicate negli armamenti nucleari: sono infatti quasi tutte statunitensi. Negli ultimi tempi la Cina ha preso una posizione possibilista, facendo capire di essere disposta a discutere su una riduzione progressiva delle testate nucleari.
Il nuovo trattato è stato messo in contrapposizione con il Treaty on the non-proliferation of nuclear weapons (Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari – Tnp), primo strumento per uscire dalla guerra fredda nucleare: tale trattato è sostanzialmente fermo da anni e disatteso da numerosi dei suoi stessi firmatari. Tra questi c’è anche l’Italia, che continua ad ospitare armi nucleari statunitensi nelle sue basi militari.
Dal lato del pacifismo più radicale, il Tpan è stato criticato poiché obbliga alla sua applicazione soltanto i paesi che l’hanno ratificato; questi paesi, allo stato attuale, sono essenzialmente quelli che hanno subito l’era nucleare, mentre quelli che posseggono armamenti nucleari si sono ben guardati dal firmarlo o l’hanno esplicitamente boicottato. Il processo di scrittura e approvazione è stato comunque un interessante esempio di come la società civile e gli Stati si possano unire in una degna causa comune. La storia del trattato è ben descritta nel documentario di Pressenza L’inizio della fine delle armi nucleari7.
Perché l’Italia non ha firmato?
Nell’ottobre del 2017, oltre 240 deputati e senatori italiani hanno sottoscritto il «Parliamentary Pledge» di Ican, cioè l’impegno a promuovere iniziative per la firma del trattato. Ma di fatto, e nonostante le campagne di raccolta firme, la dichiarazione del presidente della Camera Fico, le numerose mozioni presentate ed approvate da consigli comunali e regionali che chiedevano di firmare, la posizione del Governo resta quella della «fedeltà alla Nato». E questo anche se nello stesso trattato costitutivo della Nato non si parla mai di questioni nucleari.
Scorie
Sappiamo da tempo che il tema delle scorie radioattive è praticamente insolubile, essendo il tempo di degrado della radioattività lunghissimo. In Italia, le poche scorie prodotte dalla breve era nucleare civile sono tuttora oggetto di contenzioso e non è dato sapere dove verranno stoccate definitivamente.
Come ricorda spesso Angelo Baracca8, uno dei migliori studiosi del tema, il problema del nucleare è un problema di scala: l’essere umano cerca di riprodurre sulla Terra fenomeni che sono tipici del Sole e, in generale, delle stelle, tentando così di maneggiare una quantità di energia estremamente grande e pericolosa e non comparabile con qualunque altra energia presente sul nostro pianeta.
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Versione aggiornata dell’edizione tedesca pubblicata nel 2019, l’Atlante dell’uranio mostra il fitto intreccio di legami politici, economici e militari che stanno dietro l’estrazione di uranio, materia prima dell’era nucleare, senza dimenticare le spaventose conseguenze ambientali e umane che questa logica suicida porta con sé.
Tradotto da Alessandro Michelucci e arricchito da una scheda originale sulla specifica situazione italiana redatta da Angelo Baracca, storico studioso militante antinucleare e editorialista di Pressenza, l’Atlante sarà pubblicato nel 2021 grazie a una campagna di crowfunding su Produzioni dal Basso, in collaborazione con Terra Nuova.
La campagna è articolata in modo partecipativo e le ricompense pensate per favorire la diffusione (tramite sconti) per l’ulteriore acquisto di copie. L’auspicio di Pressenza e di Multimage è che molte persone, comitati, associazioni, istituzioni ne diventino co-promotori, diventando così diffusori di un libro che dovrebbe entrare nelle scuole, nelle biblioteche, per diventare supporto all’informazione corretta e completa su uno dei più grandi errori dell’umanità: l’era nucleare.
Con la speranza che tale era si concluda definitivamente il più presto possibile.
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