Ci sono delle realtà associative italiane che a distanza di anni continuano a rappresentare un modello di cambiamento della società, al di là delle tendenze culturali del momento e delle mode passeggere legate ai diversi stili alimentari.
L’Associazione vegetariana italiana (Avi) si può considerare una conoscenza imprescindibile per chi gravita nel mondo del pacifismo, dell’etica e della sana alimentazione. All’inizio era la Società vegetariana, fondata a Perugia il 12 settembre 1952 da Aldo Capitini, il grande intellettuale italiano della pace e della non violenza, famoso per aver importato in Italia il pensiero di Gandhi. Capitini concepiva il vegetarismo come un ampliamento dell’unità d’amore, in cui anche gli altri animali cessano di essere visti come meri strumenti a nostro uso e consumo, per diventare soggetti di una dignità propria da valorizzare e rispettare affettuosamente. Dopo vari passaggi e cambiamenti, l’associazione continua ad avere un’importante ruolo culturale nella diffusione di questi principi.
Un’evoluzione naturale
«Capitini rimane un grande intellettuale del nostro tempo» ci racconta la presidente dell’Avi Carmen Nicchi Somaschi, incontrata al Sana di Bologna. «Portava avanti il discorso pacifista con coerenza, convinto che le nostre azioni fossero importanti e che il disarmo dovesse cominciare anche dalla tavola». Carmen ripercorre la storia dell’associazione che, dopo la morte di Capitini, fu spostata a Milano e affidata a un medico di fiducia, il dottor Ferdinando Delor, che si occupò di sviluppare soprattutto l’ambito medico-scientifico della cultura vegetariana. «Se Capitini era l’anima che diede l’impronta etica, il dottor Ferdinando Delor lasciò un’impronta scientifica di cui c’era assolutamente bisogno» ricorda Carmen. «Poco prima della sua morte mi affidò la presidenza dell’associazione chiedendomi di portare avanti questo filone di pensiero, insieme a quello originale di Aldo Capitini».
Carmen, che entrò nel consiglio direttivo dell’associazione nel 1982, descrive la sua funzione primaria, forse con fin troppa modestia, come quella di referente delle public relations. Il suo lavoro era soprattutto quello di andare in giro a cercare nuovi contatti e fare informazione per mettere sulle tavole degli italiani del cibo sano e vegetariano. Già nel 1985 riuscì a realizzare il primo congresso europeo, a cui ne seguirono altri due, con la partecipazione di importanti studiosi e personaggi pubblici. «Allora era davvero difficile essere vegetariani, non si riusciva a mangiare facilmente nei ristoranti. Anche solo trovare il pane senza strutto era un problema. E poi c’era davvero poca conoscenza. Servivano nuovi stimoli».
Dopo qualche anno Carmen e soci hanno pensato di utilizzare il marchio per la certificazione dei prodotti. L’obiettivo immediato era quello di avvicinare a questo approccio alimentare nuove fasce di persone sensibili, semplificare la loro vita, offrendo degli strumenti utili per riuscire ad orientarsi. Come ci spiega la figlia, Sophia Somaschi, amministratrice della società V Label, a livello europeo si stimano circa 28 mila licenze attive e oltre 2 mila clienti. I tre settori principali sono food, bevande e cosmetica, seguono la ristorazione e il tessile/accessori. L’approvazione viene fatta da V Label e dai rispettivi partner locali, mentre Avi è garante dei criteri di assegnazione del marchio in Italia.
Visioni da tenere insieme
L’associazione, nel corso degli anni, si è dovuta confrontare con un universo di scelte sempre più variegate, vedendo nascere altri gruppi e associazioni legate soprattutto al movimento vegano, che inizialmente era semplicemente una variante del vegetarianesimo.
Oggi siamo in una società che ama dividersi e creare gruppi di identità sempre più ristretti. L’Avi cerca da sempre d riunire, assistere e rappresentare tutti i vegetariani in Italia, proponendosi come un grande contenitore in cui possono riconoscersi non solo i vegetariani nell’accezione tradizionale del termine, i lacto-ovo-vegetariani, ma anche vegani, crudisti e fruttariani. «La cosa più importante è un’informazione giusta e pacata. Non ho mai creduto nelle rivoluzioni violente» dice Carmen. «Son una sostenitrice della rivoluzione pacifica, credo si debba utilizzare come arma la cultura. Purtroppo, ancora oggi all’interno del movimento nonviolento solo in pochi hanno abbracciato la cultura vegetariana. Secondo Aldo Capitini, i nonviolenti veri dovevano fare questa scelta. Ma è chiaro che ci debba essere un’evoluzione graduale. Gli stessi animalisti, negli anni ’80, non erano vegetariani, mentre oggi di solito lo sono o sono addirittura vegani».
Carmen ricorda gli anni ’80 come un periodo difficile. Allora si cominciava a parlare della mostruosità degli allevamenti intensivi, che erano ancora più crudeli rispetto a quelli di oggi. «Da sempre mi sono riconosciuta nel biologico, che è un movimento per la vita» spiega. «Per questo motivo dire “carne bio” credo sia un ossimoro, perché il bio è vita, mentre la carne è cadavere». Alla ferma condanna degli allevamenti industriali e delle azioni di crudeltà che vi vengono praticate, sulla produzione di latte e derivati rimane possibilista, pensa che possano esistere delle valide soluzioni. «Gli allevamenti intensivi di fatto sono un’anomalia» commenta. «Non esistono in tutto il mondo e non sono necessari. In Svizzera e in Austria, ad esempio, non ci sono. Anche da noi ci sono metodi diversi di fare pastorizia, con animali che vivono liberi, in uno stato semibrado. Sono stata recentemente in Sardegna a vedere un allevamento di pecore, in cui il pastore si limita a prelevare il latte in esubero e a controllare se stanno bene. Gli animali possono muoversi liberamente nei campi e andarsi a cercare le loro erbe preferite, o quelle che all’occorrenza servono come medicine».
Fare dei distinguo
«Noi non consigliamo un consumo di latte quotidiano. La stessa cosa vale per i formaggi, prodotti che si potranno consumare occasionalmente, magari quando si è in viaggio. Rimane una libera scelta. Detto questo è sempre meglio scegliere il biologico e privilegiare chi pratica allevamento senza crudeltà. Vitelli e agnelli non devono essere strappati alle loro madri. E anche il caglio di origine animale può essere evitato. In Italia ci sono ancora caseifici che usano estratti di cardo o il fico, o il caglio cosiddetto microbico, al posto di quello estratto dallo stomaco di ovini o bovini. Queste conoscenze ci sono da anni. Ma purtroppo abbiamo cancellato la realtà contadina, con il benessere del Dopoguerra che ha rovinato buona parte della nostra cultura. Speriamo che il Covid, almeno, ci serva come insegnamento per imparare a tornare a vivere in modo più attento e misurato».
Carmen Somaschi gira per le fiere dal 1985. Un tempo era questo il terreno di battaglia privilegiato, ma ancora oggi è importante farsi conoscere e incontrare le aziende. E Terra Nuova che valore ha in tutto questo?
«Ho sempre amato Terra Nuova» risponde la presidente di Avi. «Conosco tutta la sua storia. Ho un grande rispetto per il lavoro che state facendo, apprezzo il coraggio di parlare di decrescita, necessaria per fermare uno sviluppo rovinoso per il pianeta. L’Italia non sarebbe in crisi come adesso se avesse messo energia nella sua vera ricchezza: la cultura e l’agricoltura. Terra Nuova ha una grande attenzione verso questa ricchezza e gliene sono grata. Dobbiamo vivere cercando di capire la bellezza del nostro pianeta, godere di questo. Molte parole che si usano non mi piacciono più, sono state mistificate. Sento parlare troppo a sproposito di ecologia, per fortuna ci siete voi a ricordarci qual è il vero significato».
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