I social network
Facebook, Twitter e YouTube hanno intensificato quello che è stato definito un “filtro” per le notizie e i profili/pagine degli iscritti; “filtro” a cui in molti iniziano a riferirsi come censura. Una delle ultime decisioni di Facebook a fare notizia è stata quella di eliminare la pagina dell’associazione Comilva, attiva da anni e che sostiene una posizione di libertà di scelta in materia di cure, salute e vaccinazioni, tema quanto mai caldo in questo periodo. Abbiamo deciso di intervistare il presidente di
Comilva,
Claudio Simion, per dare voce alle spiegazioni dell’associazione e alla loro posizione.
Facebook ha rimosso in toto la vostra pagina Facebook. La motivazione addotta è “una disinformazione che potrebbe causare violenza fisica”. Vi siete chiesti cosa volesse significare?
«Ce lo siamo chiesti: in primo luogo l’accusa è di aver violato i loro standard e che questo avrebbe potuto causare violenza fisica. Ora non è dato a sapere se questa sia una formula precostituita che viene utilizzata in tutti i casi in cui Facebook opera una censura, ovvero interviene in modo specifico per le questioni che riguardano il Covid-19. Quindi questi aspetti sono collegati intimamente: la disinformazione genererebbe violenza fisica, ma in che modo? Indirettamente, si suppone. Al di là dei fatti – noi non riteniamo di aver fatto disinformazione, semplicemente perché su Covid-19 e vaccini abbiamo riportato dati ufficiali di enti di controllo e regolatori o recensito testate giornalistiche internazionali, esprimendo opinioni al riguardo – viene da pensare che la pubblicazione di articoli critici verso una linea di condotta “istituzionale”, se vogliamo definirla in questo modo, o semplicemente in disaccordo con essa, e quindi in quanto tale meritevole di essere definita “disinformazione”, rappresenti un veicolo per causare violenza. Non è chiaro perché e da parte di chi, visto che siamo in un paese che si definisce democratico e che ha nel suo DNA la capacità di confrontarsi e di discutere sulle opinioni. È come se tutta la narrazione ufficiale su Covid-19 e ora sui vaccini fosse talmente fragile da poter temere anche la pubblicazione di articoli come quelli che abbiamo prodotto nelle ultime settimane. Ma non erano certamente né i primi, né saranno gli ultimi con queste caratteristiche: quindi perché Comilva? Evidentemente ci sarà dell’altro, e credo che lo scopriremo strada facendo».
Al di là della motivazione fornita dal social network, la decisione resta nel solco di una strategia che Facebook ha adottato da tempo e che ha intensificato negli ultimi mesi: togliere visibilità a chi esprime posizioni diverse da quelle del mainstream, anche quando ciò avviene con riflessioni comunque argomentate, che si sia d’accordo o no, o con domande o affermazioni che esprimono un pensiero critico. Qual è stata la prima reazione di fronte alla chiusura della vostra pagina?
«Devo dire che la cosa ci ha un po’ colto di sorpresa: il nostro stile non è mai “estremo”, abbiamo sempre cercato di proporci su un piano di discussione, approfondendo le questioni in modo deciso ma pacato, sempre documentando le nostre affermazioni e riportando riferimenti bibliografici precisi, proprio per non alimentare l’idea che la nostra narrazione derivasse da un approccio ideologico all’argomento vaccini. Non ci saremo quindi aspettati di ricevere questo tipo di trattamento: l’accusa di fare disinformazione è naturalmente falsa e la respingiamo con sdegno, ma sappiamo anche benissimo che la strategia è quella di alzare il tiro sempre di più nei nostri confronti. Questa tendenza è già in atto da alcuni anni e inizia con l’etichetta “no-vax” e con la presunta diffusione di fake news. Finora però lo spazio di visibilità era rimasto integro e la decisione finale era lasciata alle persone che ci leggevano. Ora non più, ora qualcun altro decide per loro e questo è inaccettabile, non solo per noi, ma per la nostra comunità tutta».
Ciò che passa è che determinate informazioni, notizie o riflessioni rappresentino un pericolo per la comunità e che quindi ne sia da impedire la diffusione. Addirittura passa che determinate notizie siano false o funzionali alla manipolazione dell’opinione pubblica. Avete pubblicato notizie false? Ritenete che diffondere determinate informazioni possa veramente rappresentare un pericolo? Per chi o per cosa?
«Ci viene fatto intendere questo. Come ho accennato poc’anzi, noi non abbiamo pubblicato notizie false, non potremmo farlo, in primo luogo perché questa cosa andrebbe contro la nostra etica e in secondo luogo perché abbiamo una responsabilità sociale che vogliamo tutelare tanto quanto noi stessi e la nostra dignità di uomini e donne liberi, consapevoli del loro ruolo in questa società. Tutto quello che abbiamo pubblicato rimane a disposizione di tutti ed è visibile tuttora nel nostro sito. Chi ritiene che quelle siano notizie false non deve fare altro che dimostrarlo. Ma se questo non è possibile allora dobbiamo ritenere proprio che quelle informazioni siano un problema per qualcuno, perché possono essere un’occasione per farsi delle domande, per farle ai nostri politici, ai funzionari della salute pubblica o a chiunque abbia l’onere di dare delle risposte adeguate. Quali sono i pericoli in questo caso? Io credo che il maggior pericolo percepito sia rappresentato dallo sgretolarsi del consenso verso le scelte che sono state fatte, sia in termini di gestione dell’emergenza, sia della pianificazione delle misure di contrasto, in particolare di una campagna di “vaccinazione di massa” senza precedenti in epoca moderna, se non altro perché condotta con un vaccino sperimentale, con pochissime informazioni sulla sua efficacia e soprattutto sulla sua sicurezza a medio/lungo termine. Ma più in generale parlerei di pericolo di affievolimento del consenso verso l’autorità costituita, e sappiamo bene come questa autorità si sia costituita e come stia gestendo le cose».
Il concetto di “fake news” e di “negazionista” oggi sta acquisendo confini sempre più ampi. Voi vi definireste negazionisti? O diffusori di fake news? Se no, perché? E per quale ragione secondo voi queste etichette ormai sono così diffuse?
«Etichettare serve a semplificare i concetti e racchiudere dentro ad un simbolo, in questo caso negativo, qualsiasi forma di espressione non omologata al pensiero unico dominante. Noi come altri siamo passati attraverso queste forme di discriminazione sociale e ne abbiamo vissuto le conseguenze: anche il termine “negazionista” rappresenta una forma discriminatoria di questo genere. Il termine peraltro è preso indebitamente a prestito da una definizione totalmente decontestualizzata; ricordo banalmente che il termine rappresenta una forma di revisionismo storico, che nega la veridicità di alcuni avvenimenti, in particolare del periodo nazista e fascista e della Seconda guerra mondiale. Ma che cosa dovremmo negare quindi se non la narrazione ufficiale di questi avvenimenti attuali – e non storici – sui quali non è nemmeno possibile un sano e civile confronto? Mai come in questo momento assistiamo a un appiattimento clamoroso dei mass media su versioni in ciclostile dell’informazione, dove le occasioni di approfondimento e discussione sono diventate la vetrina o il palcoscenico di discutibili opinionisti o presunti esperti tecnici che, in fin dei conti, continuano a dirci, da un anno a questa parte, che andrà tutto bene. Le etichette quindi servono a stabilire un confine fra il bene e il male, il vero e il falso, la sicurezza e il pericolo, indipendentemente dalla sostanza delle cose».
Quali iniziative metterete in atto contro la decisione del social network?
«È nostra intenzione tutelare la nostra associazione in sede giudiziaria, abbiamo già inviato una diffida, attenderemo i tempi tecnici per un riscontro e quindi passeremo alle fasi successive. Devo dire che non ci accarezza molto l’idea di far parte ancora di questa “community”, considerando proprio i principi che la regolano e per le idee che esprimono i leader di questi gruppi, per come si stanno rapportando sia in termini di rispetto che di assoluta mancanza di tutela dei diritti fondamentali e della privacy, verso la società civile. Il potere che hanno concentrato nelle loro mani è enorme e tale è il condizionamento che stanno esercitando sui meccanismi di regolazione della società civile. Non è esagerato definire questa situazione come estremamente critica e servirebbe una rapida inversione di rotta per impedire prima di tutto la creazione di posizioni dominanti nel mercato della comunicazione e quindi formulare regole chiare a tutela degli utenti di queste piattaforme, regole che siano in armonia con i diritti inalienabili sanciti dalle Costituzioni liberali dei nostri paesi. Ma siamo in condizioni di farlo? Questa è la domanda da porsi oggi, molto seriamente».
I social network, cioè piattaforme gestite da multinazionali private che di fatto operano un controllo sulla circolazione dell’informazione, stanno attuando una forma di censura piuttosto stretta, o quella alcuni preferiscono chiamare “azione di filtro”. Ormai sono frequenti le segnalazioni di rimozione di post o di pagine che non seguono il mainstream. Quanto ritenete sia pericolosa questa deriva e perché?
«Molto pericolosa, direi che siamo già andati molto oltre il limite invalicabile. Noi certamente non siamo stati la prima vittima di questa censura e penso che non saremo l’ultima, credo anzi che assisteremo a una escalation in questo senso, le premesse ci sono tutte. Ferma restando la nostra azione singola verso questo social network, dalla quale trarremo le debite conseguenze, è palese che questo sia un disegno molto ben coordinato e portato avanti con estrema determinazione da chi lo ha concepito e organizzato. Non accorgersi di questo significa, oggi, avere qualche problema di orientamento in questa società: questo scenario immaginato solo qualche anno fa generava l’idea di un fantasioso complottismo, una rappresentazione distopica della nostra società che faceva anche sorridere. Oggi c’è poco da ridere e quindi serve subito una reazione forte verso tutto questo, serve riaffermare il diritto a una vita responsabile e consapevole dove ognuno, con le proprie capacità e nel pieno della propria dignità umana, concorre al bene comune. L’inversione di questo meccanismo genera una società mostruosa, dove il concetto artefatto di bene comune, compresa la cosiddetta “salute pubblica”, totalmente disumanizzato, precede e determina i comportamenti di ciascuno. Chi non si adegua a questo viene estromesso e non ha più nessun diritto di esistere».