L’associazione Re:Common prende posizione e documenta la critica all’utilizzo dell’idrogeno: «Più che la soluzione per la crisi climatica, a noi l’idrogeno sembra una pericolosa distrazione dal necessario cambio di modello che milioni di persone in Europa e nel mondo chiedono a gran voce. Non solo per ridurre le emissioni di CO2, metano e altri gas climalteranti, ma anche e soprattutto per costruire un modello economico più giusto, sostenibile e finalmente libero dai combustibili fossili».
«Il governo italiano ha trovato la soluzione alla crisi climatica: si chiama idrogeno. Per carità, Palazzo Chigi è in buona compagnia, con aziende, istituzioni e perfino alcune organizzazioni della società civile (non solo nostrane), pronte a festeggiare la buona novella, sulla quale sono state già redatte delle linee guida per una strategia nazionale.
Prima di sognare un mondo in cui tutto sarà alimentato dall’idrogeno pulito e in cui la crisi climatica sarà solo un lontano ricordo, facciamo un bel bagno di realtà»: esordisce così l’associazione Re:Common che sul proprio sito illustra la posizione critica sull’uso di questa fonte di energia.
«Partiamo da un dato molto esemplificativo: attualmente
meno dell’1% per cento dell’idrogeno prodotto nel mondo proviene da fonti rinnovabili. Del rimanente, circa il 90% proviene dalle odiate fonti fossili, principalmente gas e in parte carbone.
Il governo italiano auspica di coprire al massimo il 20% dei bisogni energetici del Paese con l’idrogeno “verde”, ovvero prodotto con fonti rinnovabili,
entro il 2050. Anche se tutto dovesse andare secondo i piani, cosa tutt’altro che scontata, così rimarremo con
l’80% dei consumi coperto dalle fossili e solo in parte dalle rinnovabili già installate. Uno scenario di certo vantaggioso per la lobby del gas e dell’idrogeno, contrarie alla conversione alla piena elettrificazione incentrata sulle rinnovabili. Questo sarebbe il modo di affrontare realmente la crisi climatica?» prosegue Re:Common.
«Inoltre nelle linee guida per la strategia italiana si parla di “20% del fabbisogno coperto da idrogeno verde”, senza dire però dove verrebbe prodotto. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), produrre idrogeno interamente da energia elettrica (rinnovabile o meno) porterebbe a una domanda di energia di 3.600 TWh, più del doppio dell’attuale generazione di energia all’interno dell’Unione europea. Ma non dovremmo, invece, imparare a contenere la domanda di energia e investire in efficienza?».
Il video realizzato dai gastivits per Re:Common:
Cambia la tecnologia, ma non il modello
«La ricetta è sempre la stessa. Anche l’idrogeno verde è calato all’interno di un modello iper-centralizzato di produzione e distribuzione, che rimane incentrato sulle fossili. Un modello che si fonda su mega progetti e consumo di suolo, a discapito delle comunità e dell’ambiente. Un modello che accompagna – e non mette in discussione – l’espansione delle estrazioni di gas fossile, dall’Est Mediterraneo al Mozambico o all’Artico (solo per citare alcuni progetti). In altre parole, gas e idrogeno prodotto dal gas, procedono mano nella mano. Nulla di nuovo, e quindi di più democratico o sostenibile, sotto al sole» spiegano ancora dall’associazione..
«Un modello sbagliato che per altro sarebbe imposto dalle corporation e dalle istituzioni europee anche a paesi esterni all’UE: entro il 2050, l’Europa vuole installare sul suo territorio 40 GW di rinnovabili per la produzione esclusiva di idrogeno e altri 40 GW alle porte dell’Unione europea. Tra i primi candidati troviamo l’Egitto e il Marocco, che sono già collegati all’Europa da gasdotti verso la Spagna e l’Italia, con mega-progetti di solare concentrato per l’export di energia. Progetti questi già criticati per l’importante quantità di acqua di cui necessitano, il che nelle zone desertiche rappresenta un limite significativo».
«Ricapitolando, esiste un serio problema di modello estrattivista traslato sulle rinnovabili, con tutto l’addentellato di impatti nefasti che i progetti su larga scala provocano su contesti ambientali estremamente fragili o dove i diritti umani sono minacciati, come nel caso dei territori contesi del Sahara Occidentale sotto l’attuale sovranità del Marocco, dove si trovano alcuni dei mega progetti di solare concentrato di cui sopra. A corollario di tutto ciò è quasi inevitabile porsi una doppia domanda: crediamo davvero che l’idrogeno verde sia sostenibile?».
Il cavallo di Troia del gas
«La lobby dell’idrogeno è la stessa della lobby del gas. Una lobby potente, forte e strutturata, che sta in pole position per accedere ai finanziamenti europei del Recovery Plan e del Green Deal Europeo per modificare i gasdotti esistenti e attrezzarli per trasportare l’idrogeno. Così ci si porta un pezzo avanti per il futuro, rimanendo vincolati alle fossili. Ma intanto, come tra le righe ammette la stessa Snam, si continua ad andare a tutto gas, che finché esisterà e sarà richiesto dal mercato avrà la priorità sull’idrogeno» prosegue Re:Common.
«Non è un caso che Snam sia tra i principali proponenti dell’idrogeno prodotto dal gas fossile, con o senza la promessa cattura delle emissioni (CCS), una tecnologia ampiamente messa in discussione dagli studi scientifici e tecnici. La narrazione sull’idrogeno sembra fatta su misura proprio per il settore estrattivo, che può continuare a espandersi e allo stesso tempo si presenta come attore di cambiamento. Ma è davvero questo “il cambiamento” che vogliamo?».
Soldi per i soliti sospetti
«Adattare gli impianti come i gasdotti per favorire anche il trasporto dell’idrogeno ha un costo tutt’altro che risibile e di cui nessuno parla. I soldi ce li dovrebbe mettere lo Stato, nemmeno a dirlo, perché secondo le aziende, quello che viene offerto è “un servizio al pubblico”. La verità è che si tratta di un’attività commerciale, chiaramente nelle mani di corporation che vendono dei servizi allo Stato e alla collettività per fare un profitto. Ma noi abbiamo davvero bisogno di questo “servizio”? – conclude Re:Common – Invece di andare alle sempiterne corporation del settore estrattivo, queste risorse potrebbero essere veicolate verso lo sviluppo di un nuovo paradigma. Un immenso segnale di rottura con il passato, all’insegna del decentramento e dei bisogni reali delle persone, delle rinnovabili su piccola scala e controllate da comunità di persone invece che dalle mega corporation, e del mettere in rete. Un modello finalmente affrancato dalle immancabili “proiezioni di mercato sulla domanda di energia”, opera degli stessi colossi energetici, e che rinneghi il mantra della “crescita esponenziale dei consumi” per una più ragionata riduzione sulla base dei bisogni e non del profitto».